Addio, Long John. Ricordo di Chinaglia

martedì 3 aprile 2012


In giornate così i ricordi possono non essere più precisi. La morte di Giorgio Chinaglia si porta dietro un pezzo di ciascuno di noi nella tomba. Anche un po' di memoria. Sicuramente quella della nostra infanzia.

Così adesso si affastellano le reminiscenze: come quel primo Lazio-Milan uno a zero in cui un quasi esordiente Giorgio Chinaglia, entrato nel secondo tempo, fa gol a Cudicini per un maldestro passaggio indietro di un difensore, forse Rosato, a pochi minuti dalla fine. Ed era una delle prime partite che mio padre mi portò a vedere allo stadio. Da piccolo tifavo per l'Inter di Mazzola, Suarez, Corso e poi di  Boninsegna. Ma mi bastò vedere una volta giocare la Lazio di Maestrelli per capire che sarebbe stato un amore a prima vista. Poi ricordo ancora una punizione dal limite che piegò le mani a Belli, l'altro portiere del Milan, in un altro Lazio-Milan sempre dei primi anni '70. 

Chinaglia era quando portavo i pantaloni corti, Chinaglia era l'Italia che usciva dal boom ed entrava negli anni di piombo. Della cui atmosfera fu indiretta vittima il 16 gennaio 1977 il compianto Luciano Re Cecconi per quello scherzo assurdo, «fermi tutti questa è una rapina», che fece a un gioielliere suo conoscente, Bruno Tabocchini, che senza pensarci due volte lo freddò e per poco non uccise anche il difensore Ghedin che lo accompagnava. Quel gioielliere per tutta la sua breve vita fu poi dilaniato dal rimorso e divenne simbolo negativo della vita per gli ultrà laziali e positivo per gli ultrà romanisti. Peraltro un destino assurdo e jellato accomunò tutti i protagonisti della Lazio dello scudetto, o gran parte di loro. Di Chinaglia e della sua morte nell'esilio forzato in cui viveva in America parleremo fra poco. Di Re Cecconi tutti i biancocelesti veri sanno, del tumore che stroncò il grande allenatore Tommaso Maestrelli pure. Pochi però ricordano la morte in un incidente stradale ai primi di aprile del 1990 sull'autostrada A 26, mentre andava in vacanza dai figli del regista della squadra, quel Mario Frustalupi che nella Lazio dello scudetto ebbe un ruolo importante insieme a quello di altri geni del calcio degli anni '70 come il libero Giuseppe Wilson. Peraltro inghiottito a fine carriera dal primo calcio scommesse. 

Era un calcio diverso, le magliette erano numerate da 1 a 11 senza possibilità di personalizzazioni, si giocava il catenaccio inventato per la Nazionale da Ferruccio Valcareggi e di bomber da 20 e passa gol in un campionato da 16 squadre e 30 giornate ce ne erano due: Chinaglia e Boninsegna. Talvolta Pierino Prati, prima nel Milan e poi nella Roma, si avvicinava a quella media, ma i due duellanti dei primi anni '70 erano loro. Di Chinaglia calciatore si ricordano le progressioni in contropiede con velocità da centometrista e con capacità di protezione palla da carro armato, i tiri su punizione che spezzavano le mani ai portieri, la scarsa abilità di testa per via del suo collo taurino un po' incassato, che però non gli impedì di segnare svariati gol anche così, e un po' tutte e novantotto le reti fatte con la Lazio nell'arco di sette stagioni, con una media di circa 14 gol all'anno. Che per l'epoca era moltissimo.

Minore fortuna ebbe con la Nazionale per via di quel mondiale del 1974 in  Germania in cui venimmo eliminati dalla Polonia già nella fase a gironi. E tutti ricorderanno la sostituzione non gradita durante Italia - Haiti e il "vaffa" in diretta tv a Valcareggi, che all'epoca fece scalpore e che oggi sarebbe la normalità. 

Un precursore dei tempi nel bene e nel male e soprattutto nei nuovi schemi del calcio. Di fatto, come raccontava ieri Vincenzo D'Amico al Messaggero, Chinaglia era un vero e proprio allenatore in campo, e ci pensava lui pure allo spogliatoio, se del caso con maniere forti. Mentre pare sia solo una leggenda metropolitana quella del "calcio nel culo" rifilato proprio a D'Amico nel corso di Inter-Lazio del 1976, l'ultimo anno con la Lazio prima di proseguire una carriera da calciatore globetrotter, molto ben retribuito, con i New York Cosmos, dove lo raggiungeranno anche Pelè e Beckenbauer. Dice D'Amico che in realtà si sarebbe trattato di un calcio negli stinchi e questo perché Vincenzino aveva osato ridere di lui in campo dopo che Sandro Mazzola, non amato da Chinaglia, era riuscito a fargli un tunnel. 

Storie di un'Italia ancora ingenua, con la tv a un solo canale, con governi democristiani a trazione socialista che duravano in media meno di un anno e in cui si era affacciato lo stragismo, la strategia della tensione e il proto-terrorismo comunista delle Br, che però riguardavano quella parte del paese che "non si interessava di calcio". Gli intellettuali, più o meno onesti intellettualmente. 

La storia di Giorgio Chinaglia manager purtroppo è tutta un'altra, costellata da insuccessi: l'esatto opposto, più o meno, di quella da calciatore. Già da presidente della Lazio, nel 1985 portò in realtà la squadra sull'orlo del fallimento e della serie C, ma quella forse non fu tutta colpa sua. 

I veri problemi sono però molto più recenti e risalgono all'era di Lotito. Nel 2006 provò a trasformare in realtà il suo sogno di una vita: acquistare la Lazio. Dichiara di rappresentare una multinazionale. Si presentò anche in Consob, visto che la squadra era quotata in borsa.

Al tempo Chinaglia disse di essere il rappresentante di un gruppo farmaceutico ungherese intenzionato ad acquisire la maggioranza delle azioni del club capitolino. Questo provocò una serie di oscillazioni del titolo della società in borsa che determinarono una prima accusa di aggiotaggio, cui se ne aggiunse  un'altra per estorsione, perché Chinaglia, secondo l'accusa, insieme ad alcuni capi degli "Irriducibili" avrebbe ripetutamente minacciato Lotito. Nello stesso anno la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli lo iscrisse nel registro degli indagati per riciclaggio, con l'aggravante dell'Articolo 7, cioè aver favorito la camorra. L'inchiesta, la stessa che si occupò del tentativo di acquisto della Lazio e di quello precedente del Lanciano, riguardava un presunto riciclaggio di denaro da parte del clan dei Casalesi ed era partita seguendo alcune decine di milioni di dollari che sarebbero entrate illegalmente in Italia dall'Ungheria. Soldi che, si disse, sarebbero serviti per il tentativo di acquisto della Lazio. Chinaglia si era sempre professato innocente e aveva rigettato ogni accusa, preferendo però, conoscendo come vanno le cose con la giustizia in Italia, rimanere negli Stati Uniti, che infatti mai eseguirono il mandato di arresto europeo. Recentemente erano cadute quasi tutte le accuse contro di lui ed era stato revocato l'ordine di custodia cautelare. La cosa però gli ha provocato uno stress enorme, che si è poi riverberato nell'insorgere dei primi problemi cardiaci che poi domenica scorsa lo hanno portato alla morte. 

Insomma, la storia di Chinaglia è la parabola di un campione che ha rappresentato l'immaginario di Roma negli anni '70 e di buona parte dell'Italia biancoceleste dell'epoca, e si è anche essa infranta nella malapianta della giustizia all'italiana. In Italia, del resto, le favole a "non lieto fine" sono quasi tutte così.


di Dimitri Buffa