Comunicazione ed emotività nel web

Un buon equilibrio psichico implica la capacità di intrattenere rapporti adeguati sia con sé stessi che con gli altri: nella vita quotidiana, tuttavia, alcune persone si rivelano più introverse, cioè prevalentemente sole e dedite alla messa a punto del proprio mondo interiore, altre più estroverse, maggiormente inclini, cioè, alla compagnia e allo sviluppo dei rapporti interpersonali.

Quali che siano le caratteristiche prevalenti del temperamento, però, tutti noi, indistintamente, dobbiamo fare i conti con le nostre emozioni, cioè con quelle modifiche interne che avvertiamo ogni volta che accade qualcosa capace di provocare un cambiamento nella nostra vita, piccolo o grande che sia. Le emozioni possono essere gradevoli o sgradevoli, come ben sappiamo, a seconda del tipo di cambiamento avvenuto e pur essendo percepite, a volte, quelle sgradevoli, come patologiche, sono in realtà fisiologiche entrambi, proprio in quanto giustificate e reversibili. In altre parole, sia il buonumore per una vincita al lotto, sia il disagio per l’incomprensione con un amico, sono destinati ad estinguersi, presto o tardi.

A differenza delle emozioni positive dalle quali è piacevole farsi trasportare, quelle negative danno fastidio ed evocano una necessità di contromisure che possono essere più o meno efficaci in relazione all’entità dell’evento da cui derivano, ma anche a seconda del temperamento introverso od estroverso di chi le prova. I soggetti introversi adottano, in genere meccanismi di difesa autoreferenziali, poco evidenti nel contegno esteriore e più centrati sull’elaborazione interna: gli estroversi, al contrario, sono visibilmente di malumore, possono diventare aggressivi o lamentosi e cercano prevalentemente aiuto dagli altri.

Sia gli introversi che gli estroversi, tuttavia, trovano un relativo conforto nel tentativo di darsi una ragione di quanto accaduto, ancor più se, in qualche modo, riescono ad identificarne il responsabile: i primi tendono, ovviamente, ad autocolpevolizzarsi: per un litigio tra fidanzati, ad esempio, penseranno di essere stati loro a dire qualcosa di sbagliato che ha provocato la reazione negativa del partner, mentre gli estroversi rovesciano completamente sull’altro la responsabilità dell’accaduto, adottando un meccanismo proiettivo. Se a questo aggiungiamo il fatto che, ogni tanto, le nostre emozioni sembrano spontanee e prive di una causa riconoscibile, si può capire quanto sia fluido il meccanismo che le produce e come esso facilmente si sottragga ai nostri tentativi di analizzarlo.

Quando dai rapporti singoli si passa a quelli di gruppo, la situazione si complica ulteriormente perché il soggetto introverso e con sensazione di inferiorità deve fare uno sforzo supplementare per risalire la china, in modo da sentirsi all’altezza degli altri, mentre l’estroverso si lascia più facilmente inglobare, ma può essere anche fagocitato dagli altri, se incapace di modulare le sue capacità relazionali e competitive: è così che, all’interno del gruppo, un po’ alla volta, i molti gregari si vanno delineando rispetto ai pochi leader. Questo, tuttavia, vale per i gruppi fisicamente costituiti nei quali è la presenza contemporanea dei singoli membri in determinate occasioni, a provocare quel ricircolo di emozioni che, per alcuni, si traduce nel piacere della condivisione, per altri nel desiderio di far prevalere i propri punti di vista in modo da conquistare consenso.

La rete, invece, rappresenta un’aggregazione virtuale, percepita tuttavia come “gruppo” dagli utenti che ne rappresentano i nodi e i rapporti che si sviluppano al suo interno sono essi stessi virtuali, come le reazioni emotive ad essi collegate: tali reazioni risultano a loro volta, mutevoli, artificiose, poco modulabili e non verificabili proprio perché sganciate sia dal soggetto fisico che le provoca, sia da quello che ne è destinatario.

Lo scopo originario della comunicazione via Internet era quello di sopprimere eventuali sentimenti di inferiorità, appianando le differenze caratteriali, in modo che chiunque, indipendentemente dal suo temperamento, potesse sentire di far parte a pieno titolo e con pari dignità, del gruppo sociale costituito, anche se solo “virtuale”. Ci si è poi resi conto che, in realtà, tale gruppo dà agli introversi la semplice illusione di aver colmato le proprie carenze sociali, fornendo, nello stesso tempo, agli estroversi con fragile identità personale, un campo sterminato per coltivare la sensazione altrettanto illusoria, di contare qualcosa all’interno del gruppo, di esserne cioè leader, almeno potenziali, invece che semplici gregari. Nel gruppo virtuale, infatti, non esiste un “capo” fisico cui si debba rendere conto, ma soltanto un reticolo impersonale di connessioni all’interno del quale la regola prevalente, se non l’unica, è quella della più assoluta anarchia. E’ facile, dunque, capire come i meccanismi proiettivi all’interno di un gruppo virtuale, possano scatenarsi senza alcun controllo per il semplice motivo che il bersaglio fisico da colpevolizzare non è fisicamente accessibile, non ci sono rapporti diretti con l’utente di turno, non c’è alcun bisogno, in altre parole, di nutrire paura o soggezione.

La rete, indubbiamente, serve anche a dimostrare la propria approvazione per qualcosa, ma il messaggio positivo è espressione di un pensiero libero ed autocosciente, mentre contumelie ed insulti, spesso gratuiti, non esprimono solo dissenso, ma anche un’aggressività compulsiva di cui l’utente con problemi di integrazione sociale NON può far a meno se vuole attenuare gli effetti delle sue emozioni negative, quale che sia la causa da cui esse scaturiscono: un fatto realmente accaduto, ad esempio, un’opinione contraria in rete o anche la semplice repulsione per la forma in cui l’opinione è stata espressa.

L’illusione di essere “leader” è poi ulteriormente accentuata dalla pratica del cliccare sul “mi piace” o sul “non mi piace”: la Condivisione come tabù estremo ed intoccabile altro non è che la discendenza illegittima dell’Auditel televisivo: ma questo, almeno, ha evidenti e comprensibili scopi commerciali, mentre la segnalazione di diecimila “mi piace”, soprattutto se paradossalmente riferita ad un’invettiva contro qualcuno o alla notizia di un fatto di sangue, ha il solo scopo di verificare l’esistenza di diecimila gregari che, confermando l’opinione di chi per primo l’ha messa in rete, gli fanno credere davvero di essere un leader riuscendo a compensare i suoi sentimenti di inferiorità, dei quali, tuttavia, il leader, a differenza dei gregari, non è consapevole.

Il presunto leader, da parte sua, non può che interpretare i “mi piace” come conferma della sua capacità comunicativa e persuasiva, per cui sarà indotto a formulare nuovi messaggi sempre più forti ed aggressivi che confortino il suo narcisismo compensatorio, col rischio di trasformarsi, un po’ alla volta, nella figura del cyber-bullo; un soggetto del genere, quando si sente investito di un potere fittizio, lo usa in modo indiscriminato contro altri utenti, poco importa se conosciuti o no, rischiando di farli diventare vittime di linciaggi mediatici gravidi di conseguenze, se inflitti a persone particolarmente fragili.

Il più delle volte, fortunatamente, tutto si esaurisce in uno scambio di epiteti non molto diverso da quello che avviene tra automobilisti nervosi: anche in questo caso, la percentuale dei litigi che degenerano vero l’aggressione fisica resta comunque poco significativa, dato che gli epiteti, per quanto maleducati e sgradevoli, sono comunque l’alternativa innocua alle vie di fatto. Da questo punto di vista, la rete rappresenta indubbiamente una specie di giroscopio comunicativo capace di controbilanciare taluni squilibri emotivi con altri di segno opposto in modo che essi si annullino reciprocamente: attenzione, però, a non cadere nel tranello pubblicitario che fa identificare un semplice meccanismo di compensazione con quello di risoluzione dei conflitti stessi. La rete può forse addestrare a bypassarli e a fingere, con maggiore disinvoltura, che non esistano, mentre per affrontarli davvero, bisogna guardarsi allo specchio e riferirli a sé, alla propria interiorità, alla storia ed alle esperienze personali, senza ricorrere ai comodi capri espiatori proiettivi, imparando a soffrire, in altre parole, o se volete, come si usa dire oggi il più delle volte a sproposito, mettendoci la faccia.

Aggiornato il 28 novembre 2022 alle ore 02:57