Lo stagista è comunque un lavoratore, un mostro giuridico il no al risarcimento

La notizia, in sé terribile, campeggia sulle pagine di tutti i quotidiani e su tutti gli schermi televisivi. I familiari del giovane diciottenne Giuliano De Seta, che studiava in un istituto superiore di Portogruaro, tragicamente morto il 16 settembre scorso, mentre lavorava in una fabbrica quale stagista in ottemperanza all’alternanza scuola-lavoro, hanno appreso dall’Inail che non riceveranno alcun indennizzo per la morte del figlio, benché causata da un incidente sul lavoro. Due sarebbero le motivazioni giuridiche che, secondo l’Inail, sarebbero a base di un simile diniego. In primo luogo, Giuliano non avrebbe rivestito la qualifica di lavoratore, ma soltanto quella di stagista, tipica di chi abbia l’obbligo stabilito con legge della alternanza scuola-lavoro. In secondo luogo, egli non ricopriva il ruolo di capo famiglia percettore di reddito, avendo solo diciotto anni e non essendo ancora sposato. Si tratta evidentemente di due enormi assurdità giuridiche indegne di uno Stato di diritto. Vediamo brevemente perché.

Dal primo punto di vista, lavoratore, per il diritto, non è soltanto chi abbia ricevuto la qualifica che lo renda formalmente tale, in quanto regolarizzato ai sensi delle leggi vigenti, bensì chiunque lavori in punto di fatto alle dipendenze e sotto le direttive di un datore di lavoro, anche se non in regola con i criteri dettati dalle norme: e qui si trattava di uno stagista, non certo di uno che passava per caso.

Sono decenni infatti che la giurisprudenza uniforme insiste su questo aspetto fondamentale: nell’ambito del lavoro subordinato, a prevalere è sempre il fatto in se stesso considerato e non la qualificazione che il diritto riesca o non riesca a dare di quel fatto. Qui non si tratta dunque di lambiccarsi il cervello per escogitare nuove formule giuridiche né di ricorrere a espedienti innovativi. Qui basta e avanza il normale buon senso (oggi, purtroppo, spesso latitante) per vedere che Giuliano lavorava al pari degli altri lavoratori regolarizzati formalmente come tali da quella fabbrica: né più né meno. E se lavorava, era evidentemente un lavoratore e non una cosa diversa che davvero non si saprebbe come chiamare in lingua italiana, così come uno che studia a casa propria non cessa di essere studente sol perché non è iscritto regolarmente presso un istituto scolastico. Insomma, nell’ambito giuridico – e specialmente in quello lavoristico – è sempre il fatto a prevalere sulle etichette, la vita reale sulla maschera sociale: non è difficile da capire, anche perché, se così non fosse, l’intera impalcatura giuridica fatta e pensata per proteggere gli esseri umani si tramuterebbe in un mostruoso strumento di sopraffazione.

E si badi. Non è neppure necessario ricorrere a un’interpretazione analogica delle norme vigenti – tale da applicarle a casi simili ma non previsti – bastandone una semplicemente estensiva: basta cioè ricomprendere – così come si deve – nel novero dei lavoratori formalmente tali di quella fabbrica anche Giuliano che lavoratore era in senso reale e, per giunta, stagista per obbligo di legge. Dal secondo punto di vista, la previsione di un indennizzo solo se lo stagista sia capo famiglia percettore di reddito è palesemente illegittima per violazione del principio di eguaglianza consacrato dalla nostra Costituzione, per il semplice motivo che tali indennizzi sono destinati a ristorare non il semplice venir meno di un reddito, ma un danno di portata molto più ampia e cioè il verificarsi di un incidente sul lavoro, in questo caso addirittura mortale. E perciò non si vede per qual motivo se l’incidente capiti al capo famiglia, allora debba essere indennizzato, mentre in caso contrario non lo debba, finendo col creare una odiosa e immotivata discriminazione e facendo della percezione del reddito il punto archimedeo dell’evento dannoso: cosa che non è e non può essere.

I poveri genitori di Giuliano lo sanno bene, anche perché nessuna somma potrebbe bastare a ristorare il loro dolore. In questo caso, la responsabilità è da ascrivere naturalmente a coloro che pensarono bene di varare quella norma sul capofamiglia, non si sa bene sulla base di quale ragionamento. A che servono allora le Commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato se non riescono a vedere queste cose così semplici? E oggi coloro che le componevano non hanno provato un poco di vergogna?

(*) Articolo tratto dal quotidiano La Sicilia

Aggiornato il 11 gennaio 2023 alle ore 10:30