Gli insegnamenti di Benedetto XVI per i giuristi

lunedì 9 gennaio 2023


“Non si scorge altro che il buio baratro del nulla, ovunque si volga lo sguardo”: così scriveva, in uno dei suoi più densi e profondi passaggi, Joseph Ratzinger nella sua monumentale Introduzione al Cristianesimo (2005, pagina 35). Del resto, in un mondo in cui i diritti fondamentali non sono realmente tutelati, in cui il valore dello scambio economico prevale sulla pregnanza della relazione giuridica, in cui il diritto alla vita del nascituro è negato tramite sistemi sempre più sofisticati di interruzione volontaria di gravidanza, in cui l’altro viene reificato e mercificato, per esempio, tramite la maternità surrogata e le tecniche di procreazione medicalmente assistita, in cui aumenta la divaricazione tra Paesi e popoli ricchi da un lato e lesione dei diritti umani dei Paesi e dei popoli poveri dall’altro, in cui direttamente o indirettamente si riducono gli spazi di democrazia, in cui sempre più si comprime il diritto alla libertà religiosa e di coscienza, pare davvero che tutto venga sempre maggiormente fagocitato dalle tenebre; l’ombra del nichilismo sembra essersi oramai proiettata su tutto, perfino dentro la Chiesa, perfino nel cuore del cattolicesimo, perfino nel cuore dei cattolici e dei giuristi il più delle volte indifferenti alle difficoltà che l’umanità attraversa.

Dinnanzi a tale fosco scenario, che quasi intossica l’anima e corrode la vista, Benedetto XVI ha indicato la via da seguire nelle sue tre Encicliche, quasi per tracciare ai giuristi del XXI secolo la rotta da seguire per evitare il naufragio, donando loro un faro di riferimento che rischiari la notte dello spirito che si sta attraversando oramai da parecchi decenni. Le Encicliche papali, si sa, sono sempre documenti complessi e articolati, che meritano attento studio e meticolosa riflessione, e ciò vale a maggior ragione per quelle di un pontefice teologo quale è stato Benedetto XVI, le Encicliche del quale, tuttavia, si caratterizzano per la ricchezza e la profondità degli argomenti trattati pur accompagnati dalla non comune chiarezza con cui gli stessi vengono resi. Anche i giuristi più sordi al principio di ragione e di verità, adusi magari alla placida sottomissione al principio d’interesse o a quello di imperio, non potranno sottrarsi alla ponderazione di ciò che Benedetto XVI ha scritto proprio sul piano del diritto.

Per cercare di sintetizzare il più possibile il discorso, altrimenti molto lungo, si può ritenere che gli insegnamenti di BXVI intorno al diritto si debbano distinguere in tre differenti, ma interconnesse dimensioni: la dimensione metodologica; la dimensione ontologica; la dimensione assiologica, rispettivamente su come approcciarsi al tema del diritto, su cosa intendere sul tema del diritto e su quali conseguenze trarre da tutto ciò. Per quanto attiene alla dimensione metodologica, essa risente del profilo tipico di Benedetto XVI sia come cristiano, sia come teologo, cioè come naturale interlocutore della ragione umana, poiché per un cristiano e per un pontefice di Santa Romana Chiesa di autentica formazione cattolica la fede – come hanno insegnato tra gli altri Sant’Anselmo, Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino – non può essere disgiunta dalla ragione, in nessun caso e soprattutto quando si affronta il problema del diritto.

Ecco allora che in Deus caritas est, Benedetto XVI così specifica: “La dottrina sociale della Chiesa argomenta a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano. E sa che non è compito della Chiesa far essa stessa valere politicamente questa dottrina: essa vuole servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale. Questo significa che la costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare. Trattandosi di un compito politico, questo non può essere incarico immediato della Chiesa. Ma siccome è allo stesso tempo un compito umano primario, la Chiesa ha il dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili” (n. 28).

In sostanza, senza ragione, senza la ragione che riconosce i propri limiti, senza ragione che evita di auto-idolatrarsi, non si può sperare di ottenere giustizia. La ragione, dunque, è la cifra metodologica che il giurista, come il sistema socio-politico nella sua interezza, deve adottare per sperare di rimanere sé stesso e di raggiungere la giustizia: “La giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica. La politica è più che una semplice tecnica per la definizione dei pubblici ordinamenti: la sua origine e il suo scopo si trovano appunto nella giustizia, e questa è di natura etica. Così lo Stato si trova di fatto inevitabilmente di fronte all’interrogativo: come realizzare la giustizia qui ed ora? Ma questa domanda presuppone l’altra più radicale: che cosa è la giustizia? Questo è un problema che riguarda la ragione pratica; ma per poter operare rettamente, la ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell’interesse e del potere che l’abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile” (n. 28).

Da qui, con il suddetto basilare interrogativo, si transita dalla dimensione metodologica a quella ontologica, poiché un sistema giuridico e socio-politico che non confida nella giustizia non può dirsi realmente né strutturalmente giuridico, né essenzialmente socio-politico, in quanto soltanto nella prospettiva della giustizia si può fuoriuscire dall’alveo dell’individualismo e dell’immanenza aprendosi al cielo della speranza e della trascendenza. In tale direzione, spiega Benedetto XVI nella Spe salvi, “la questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna. Il bisogno soltanto individuale di un appagamento che in questa vita ci è negato, dell’immortalità dell’amore che attendiamo, è certamente un motivo importante per credere che l’uomo sia fatto per l’eternità; ma solo in collegamento con l’impossibilità che l’ingiustizia della storia sia l’ultima parola, diviene pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita” (n. 43).

La giustizia, tuttavia, per essere tale deve essere messa in relazione con la grazia, come la ragione con la fede, poiché la giustizia non è assoluta, ma mitigata e arricchita dalla grazia la quale a sua volta non rinnega la giustizia, ma la supera conservandola. Entrambe, dunque, devono essere correttamente intese e autenticamente comprese, poiché, spiega ancora BXVI, “ambedue – giustizia e grazia – devono essere viste nel loro giusto collegamento interiore. La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s’è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore. Contro un tale tipo di cielo e di grazia ha protestato a ragione, per esempio, Dostoevskij nel suo romanzo I fratelli Karamazov. I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato” (n. 44).

In quest’ottica deve essere messa in relazione, allora, la giustizia con la carità, giungendo così alla dimensione assiologica degli insegnamenti di BXVI per i giuristi.

Nell’Enciclica Caritas in veritate, infatti, si legge che “la carità esige la giustizia: il riconoscimento e il rispetto dei legittimi diritti degli individui e dei popoli. Essa s’adopera per la costruzione della “città dell’uomo” secondo diritto e giustizia. Dall’altra, la carità supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono. La “città dell’uomo” non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione. La carità manifesta sempre anche nelle relazioni umane l’amore di Dio, essa dà valore teologale e salvifico a ogni impegno di giustizia nel mondo” (n. 6).

Il diritto allora non può essere semplice espressione della volontà dell’autorità o del più forte, non può essere ridotto alla sua regolarità formale, non può essere sottomesso alle prassi politiche ed economiche o di qualsivoglia altra specie, poiché il diritto è qualcosa di più e di diverso, tanto che, prosegue sempre Benedetto XVI, “accanto agli aiuti economici, devono esserci quelli volti a rafforzare le garanzie proprie dello Stato di diritto, un sistema di ordine pubblico e di carcerazione efficiente nel rispetto dei diritti umani, istituzioni veramente democratiche. Non è necessario che lo Stato abbia dappertutto le medesime caratteristiche: il sostegno ai sistemi costituzionali deboli affinché si rafforzino può benissimo accompagnarsi con lo sviluppo di altri soggetti politici, di natura culturale, sociale, territoriale o religiosa, accanto allo Stato. L’articolazione dell’autorità politica a livello locale, nazionale e internazionale è, tra l’altro, una delle vie maestre per arrivare ad essere in grado di orientare la globalizzazione economica. È anche il modo per evitare che essa mini di fatto i fondamenti della democrazia” (n. 41).

E proprio alla luce di ciò, allora, non si può manipolare il più fondamentale diritto di tutti, cioè il diritto alla vita, non, dunque, per motivi legati alla fede, ma per motivi legati alla ragione e al diritto naturale che tutta la dimensione dell’ordinamento giuridico e politico dovrebbe costantemente illuminare e sorreggere. Scrive, quindi, BXVI che “se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la nascita dell’uomo, se si sacrificano embrioni umani alla ricerca, la coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale. È una contraddizione chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell’ambiente naturale, quando l’educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesse. Il libro della natura è uno e indivisibile, sul versante dell’ambiente come sul versante della vita, della sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle relazioni sociali, in una parola dello sviluppo umano integrale. I doveri che abbiamo verso l’ambiente si collegano con i doveri che abbiamo verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri. Non si possono esigere gli uni e conculcare gli altri. Questa è una grave antinomia della mentalità e della prassi odierna, che avvilisce la persona, sconvolge l’ambiente e danneggia la società” (n. 51). Per evitare ogni riduzionismo biologista, tuttavia, occorre tener conto anche degli altri diritti umani e fondamentali, cominciando proprio da quello di professare pubblicamente la propria religione, troppo spesso compresso e sacrificato non soltanto nei dispotici regimi orientali o nei totalitarismi dalla forte caratura ideologica, ma anche nei sistemi democratici occidentali.

In tale direzione precisa Benedetto XVI come “la negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione e ad operare perché le verità della fede informino di sé anche la vita pubblica comporta conseguenze negative sul vero sviluppo. L’esclusione della religione dall’ambito pubblico come, per altro verso, il fondamentalismo religioso, impediscono l’incontro tra le persone e la loro collaborazione per il progresso dell’umanità. La vita pubblica si impoverisce di motivazioni e la politica assume un volto opprimente e aggressivo. I diritti umani rischiano di non essere rispettati o perché vengono privati del loro fondamento trascendente o perché non viene riconosciuta la libertà personale. Nel laicismo e nel fondamentalismo si perde la possibilità di un dialogo fecondo e di una proficua collaborazione tra la ragione e la fede religiosa. La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità” (n. 56).

I diritti fondamentali, del resto, non possono essere separati dai diritti sociali, poiché anch’essi riflettono la dignità della persona: “I poveri in molti casi sono il risultato della violazione della dignità del lavoro umano, sia perché ne vengono limitate le possibilità (disoccupazione, sotto-occupazione), sia perché vengono svalutati i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia” (n. 63). Per riuscire in tutto ciò, in conclusione, tuttavia, occorre – specialmente per i giuristi – tenere e mantenere e mantenersi nel solco dell’umanesimo cristiano rigettando ogni visione materialistica e immanentistica della storia e dell’uomo che si risolve per essere tanto anti-umana in quanto anti-cristiana.

Sempre con le dense parole di chiusura della Caritas in veritate, infatti, “la disponibilità verso Dio apre alla disponibilità verso i fratelli e verso una vita intesa come compito solidale e gioioso. Al contrario, la chiusura ideologica a Dio e l’ateismo dell’indifferenza, che dimenticano il Creatore e rischiano di dimenticare anche i valori umani, si presentano oggi tra i maggiori ostacoli allo sviluppo. L’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano. Solo un umanesimo aperto all’Assoluto può guidarci nella promozione e realizzazione di forme di vita sociale e civile — nell’ambito delle strutture, delle istituzioni, della cultura, dell’ethos — salvaguardandoci dal rischio di cadere prigionieri delle mode del momento. È la consapevolezza dell’Amore indistruttibile di Dio che ci sostiene nel faticoso ed esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo dei popoli, tra successi e insuccessi, nell’incessante perseguimento di retti ordinamenti per le cose umane. L’amore di Dio ci chiama ad uscire da ciò che è limitato e non definitivo, ci dà il coraggio di operare e di proseguire nella ricerca del bene di tutti, anche se non si realizza immediatamente, anche se quello che riusciamo ad attuare, noi e le autorità politiche e gli operatori economici, è sempre meno di ciò a cui aneliamo. Dio ci dà la forza di lottare e di soffrire per amore del bene comune, perché Egli è il nostro Tutto, la nostra speranza più grande” (n. 78).

(*) Tratto dal Centro Studi Rosario Livatino


di Aldo Rocco Vitale (*)