Se ora Mattarella graziasse 84 detenuti

È sconcertato, Matteo Salvini, per quanto accaduto al carcere minorile milanese Cesare Beccaria; annuncia, promette interventi “per mettere in sicurezza tutte le carceri italiane”. Fosse vero che finalmente ci si decide a intervenire, fare qualcosa di organico e strutturale per porre rimedio all’incivile situazione delle carceri italiane, per “mettere in sicurezza” chi vi sconta pene e chi vi ci lavora: verrebbe quasi da ringraziarle, quelle evasioni e disordini.

Purtroppo, ancora una volta, la risposta si annuncia carcerocentrica. Il ministro Salvini e un po’ tutta la classe politica, di maggioranza e di opposizione, non sembrano per nulla “sconcertati” dagli ottanta e passa suicidi nelle carceri (detenuti, ma anche agenti di custodia): il numero più alto di sempre, quest’anno.

Don David Maria Riboldi la realtà delle celle la vive tutti i giorni, è cappellano del carcere di Busto Arsizio, ha fondato la cooperativa sociale “La Valle di Ezechiele”. La scorsa estate si è fatto portavoce del dramma nelle celle, avviando la campagna “Una telefonata ti può salvare la vita”, perché sia messo un telefono in ogni cella: scelta capace di rinvigorire i legami familiari, vero fattore di protezione sociale dall’isolamento e dall’abbandono che sembrano avere campo libero nelle celle. A chi propone di costruire nuove carceri oppone una ragionevole contestazione: “Le sigle sindacali lamentano sempre e non senza ragioni la grave carenza di organico già allo stato attuale nella gestione dei penitenziari. Non si riesce ad avere personale per le carceri che già abbiamo: come possiamo immaginare di crearne di nuove?”. Racconta poi che nella sua cooperativa in due anni hanno accolto una dozzina di persone: “Nessuna di loro ha commesso nuovi reati. Forse la soluzione non è costruire nuove carceri, ma favorire misure alternative alla detenzione, che danno risultati decisamente più rassicuranti in termini di recidiva”.

Si chiama, in termine tecnico-giuridico “giustizia riparativa”: misure alternative al carcere e percorsi di studio e professionalizzanti che offrono ai detenuti un’alternativa seria, fatta di lavoro e di normalità, alla tentazione di ritornare alla “malavita”.

Questo è un modo serio per affrontare la questione del carcere, senza indulgere nelle “sparate” demagogiche di chi è a caccia di facili consensi di “pancia”.

Anche quest’anno praticamente solo i radicali hanno trascorso parte del loro Natale in carcere con i detenuti e la comunità penitenziaria, si è levata una sola voce, quella di Papa Francesco: un appello a tutti i governanti, in vista delle feste natalizie, per concedere un indulto. Appello dai più ignorato, silenziato.

L’indulto è un provvedimento che in Italia compete al Parlamento. Tutti presi come sappiamo dalla legge di Bilancio, quest’appello del Pontefice non è stato minimamente raccolto.

Qui non si ha nessuna intenzione, ovviamente, di tirare per la giacchetta il capo dello Stato, Sergio Mattarella. Si ricorda solo che dispone di un potere, quello di “grazia”. Faccia lui il suo piccolo indulto. Scelga un certo numero di detenuti a cui concedere la grazia. Magari 81 “grazie” più tre: una per ognuno dei detenuti che quest’anno si è tolto la vita, 81 appunto; più tre: gli agenti della polizia penitenziaria. Perché anche loro si tolgono la vita, e probabilmente le condizioni in cui anche loro sono costretti a vivere e lavorare incidono in quella loro drammatica decisione di farla finita.

Sarebbe un gesto simbolico ma denso di significato, un segnale inequivocabile a tutta la classe politica: un “memento” gli oltre ottanta suicidi in carcere, per non dire di quelli sventati e delle migliaia di atti di autolesionismo, impongono, dovrebbero imporre riflessione e azione di governo.

Aggiornato il 28 dicembre 2022 alle ore 12:29