Block Notes per una legislatura riformatrice in materia di giustizia

Brevi appunti a margine delle dichiarazioni programmatiche del ministro della Giustizia, Carlo Nordio.

Premessa

È alto il tono della polemica innescata in questi ultimi giorni dall’Associazione Nazionale Magistrati nei confronti del ministro della Giustizia, sempre a seguito delle linee programmatiche comunicate alle Commissioni Giustizia di Senato e di Camera il 6 e il 7 dicembre nonché di alcune successive dichiarazioni rese alla stampa.
Il Centro Studi Rosario Livatino è abituato a giudicare i fatti, ovvero i testi normativi, e non gli auspici: vedremo se e quando le dichiarazioni programmatiche del ministro o alcune di esse troveranno attuazione. Anche il precedente ministro della Giustizia ebbe a presentarsi con ottimi auspici: tuttavia ciò che è residuato dalla precedente esperienza di governo è una riforma che, oltre a deludere le aspettative, è apparsa foriera di non poche criticità.

Ad onor del vero va detto, però, che si fa fatica a ricordare delle linee programmatiche in materia di giustizia così esplicitamente ispirate al principio costituzionale del giusto processo. Dalla separazione delle carriere all’abuso delle intercettazioni, dall’abuso d’ufficio alla configurazione del corpo di reati contro la Pa, dalla presunzione di innocenza alle ingiuste detenzioni, dalle criticità del sistema carcerario a quelle della magistratura, si tratta di temi sui quali da sempre il Centro Studi Livatino cerca con equilibrio e senza partigianerie ideologiche di tenere desta l’attenzione e per i quali ha fortemente auspicato ed auspica il massimo impegno in questa nuova legislatura: anzi, abbiamo proprio espresso l’auspicio che questa sia una legislatura orientata a una reale riforma della giustizia.

Separazione delle carriere e obbligatorietà dell’azione penale

È il cuore del problema. A 33 anni dal vigore di un codice di procedura penale che ha trasformato il pubblico ministero in una parte non assimilabile al giudice, non è più rinviabile una vera e formale separazione delle carriere. In un processo realmente “di parti”, la separazione è il logico corollario del principio della parità di quelle “parti”. La riforma Cartabia ha compiuto un passo ulteriore rispetto alla riforma Castelli del 2006, consentendo un solo cambiamento dalla funzione requirente a quella giudicante, ma l’accesso in magistratura rimane unico, così come rimane unico l’organo che decide su carriera, professionale e disciplina, ovvero il Csm, dove i Pm continuano a essere eletti dai giudici, e viceversa, e sedendo insieme ciascuno continua a occuparsi delle carriere degli altri. Il ruolo del Pm va, allora, rigorosamente separato dal ruolo dei giudici. Parimenti abbiamo sempre evidenziato la necessità di:
– estrapolare il giudizio disciplinare dal Csm, per affidarlo a un giudice non elettivo (anzi non eletto per nulla, bensì nominato con criteri oggettivi, per sottrarre l’applicazione delle sanzioni ai condizionamenti dei gruppi di appartenenza);
– rivedere i meccanismi di valutazione della professionalità dei magistrati e di nomina dei capi degli uffici.
Il ruolo assunto dal Pm senza adeguati contrappesi istituzionali, peraltro, rafforza l’esigenza della separazione.
Oggi, infatti:
– la scelta delle notizie di reato è compiuta dal Pm e tale amplissimo potere selettivo è stato ratificato dalla riforma Cartabia;
– con l’enorme mole del materiale penale che perviene al suo ufficio, il principio dell’esercizio obbligatorio dell’azione penale è ormai un mero simulacro. Se occorre uscire dall’attuale ipocrisia di un’azione penale formalmente obbligatoria ma in realtà discrezionale, occorre, tuttavia, evitare di sconfinare in una discrezionalità ancor più diffusa. Occorre, pertanto, una riflessione seria sulla sostenibilità della obbligatorietà dell’azione penale e sulla individuazione di criteri oggettivi e omogenei per l’avvio delle indagini.

L’abuso delle intercettazioni

La captazione di conversazioni tra presenti mediante l’ausilio di strumenti informatici o telematici è un mezzo di ricerca della prova e, come tale, talvolta necessario. Questo è indubitabile. Il problema è, però, da una parte, l’abuso dello strumento investigativo e, dall’altra, l’uso che si fa dei suoi risultati ovvero la divulgazione delle conversazioni. Quanto all’abuso dello strumento, nessuno può dubitarne. Il numero di utenze intercettate (e dei relativi costi) è letteralmente abnorme e risulta, ancor più abnorme, a confronto proporzionale con il numero di condanne passate in giudicato, all’esito di processi nei quali ci si è avvalsi di questo strumento come mezzo di ricerca della prova. Tutto ciò appare l’esito di un uso quasi preter legem (laddove non proprio contra legem) dello strumento, trasformato sovente in mezzo di ricerca dei reati. Quanto alla divulgazione di brani, sintesi o trascrizioni integrali di conversazioni intercettate, talvolta pure prive di rilievo penale o addirittura di attinenza alle indagini, nessuno nega che essa abbia assunto da decenni connotazioni selvagge. Orbene, la conversazione intercettata può essere diffusa o perché viene passata ai media illegalmente, o perché viene comunque usata a sostegno di provvedimenti giudiziari. In entrambi i casi, le intercettazioni arrivano ai giornalisti perché qualcuno dei soggetti del procedimento penale fa in modo che giungano alla stampa. Sul punto, pertanto, accanto alla necessaria e doverosa, ricerca di un maggior rigore procedurale, occorre intervenire per rafforzare il profilo deontologico dei magistrati, della polizia giudiziaria, ma anche degli avvocati e dei giornalisti, chiamando tutti all’esercizio delle proprie responsabilità. Al riguardo non può che essere salutata con favore la decisione della Scuola Superiore della Magistratura di dedicare sistematicamente iniziative formative al tema dell’etica e della deontologia.

Abuso d’ufficio e reati dei pubblici amministratori

Da una legislatura orientata a una reale riforma della giustizia ci si attende, inoltre, uno snellimento delle procedure, sia civile che penale, e una razionalizzazione dei reati dei pubblici amministratori. Non è solo una questione di spreco di risorse giudiziarie; il che già non sarebbe cosa di poco conto. La questione è che, fino a quando il procedimento è in corso, il pubblico amministratore, in spregio alla presunzione costituzionale di non colpevolezza – accentuata dalla percentuale schiacciante di processi che terminano senza condanne – è, invece, mediaticamente un presunto responsabile. E non basta: se l’atto del pubblico ufficiale, qualificato in termini di abuso, si inserisce nell’iter di un’opera pubblica, grande o piccola che sia, è difficile che quell’opera finisca col realizzarsi. Quando l’indagato viene assolto, le risorse finanziarie, destinate a quell’opera, spesso non sono più disponibili, o non sono più sufficienti. In ogni caso, occorre espungere i reati contro la pubblica amministrazione da quelli che impediscono l’accesso ai benefici penitenziari. Trattare questi (e altri) reati al pari di efferati reati di stampo mafioso è semplicemente illogico e irragionevole.

L’emergenza carceraria

Il tema è tutt’altro che secondario, eppure trova poco spazio, sia nelle petizioni di principio che nelle previsioni di spesa. Quest’anno, come ha ricordato il Presidente del Consiglio ancor prima del ministro della Giustizia, è stato raggiunto il triste record di suicidi nelle carceri. Se non c’è questo in cima all’agenda di un governo in materia di giustizia, davvero non si vede che cosa debba esserci. Tanto sembra essere il risultato anzitutto del fatto che il carcere è diventato la “discarica” della società, il luogo dove “conferiamo” non solo i criminali, ma, spesso, persone con disturbi psichici delle cui patologie la comunità dovrebbe prendersi cura altrove e diversamente ma per le quali non esistono luoghi di contenimento e trattamento. In secondo luogo, i suicidi ci dicono che nelle carceri si è persa la speranza, la speranza di un cambiamento, di una conversione, di una “nuova libertà”. Il tutto all’interno di un quadro di cronico sovraffollamento carcerario e di altrettanta cronica carenza di personale penitenziario (di polizia, sanitario, rieducativo ecc.) che rende inumane (oltre che difficile controllo e gestione) le condizioni dei detenuti e degli operatori penitenziari tutti. Ecco che allora un’altra grande priorità dovrebbe essere un “Piano Marshall” per le carceri che riguardi sia le strutture che le dotazioni di uomini e di mezzi, per consentire condizioni di vita dignitose ai detenuti e agli operatori penitenziari, sia la piena efficacia e funzionalità di tutti gli istituti di rieducazione e recupero di chi ha commesso degli errori. Se poi, insieme a tutto questo, vi fosse il coraggio di un provvedimento di clemenza, come è tornato a chiedere in occasione del Natale Papa Francesco, ad esempio un indulto, questa legislatura si caratterizzerebbe come davvero riformatrice della giustizia, ovvero di quella virtù che se è tale si fa carico anche (e forse soprattutto) della condizione di coloro che giudica.

Un drastico aumento dell’organico magistrati

Qualunque riforma della giustizia, in ogni caso, sarebbe vana senza una cospicua, storica, immissione in ruolo di magistrati, in tutte le giurisdizioni e in tutti i ruoli. Chi abbia pratica della prassi giudiziaria ha ben chiaro che ciò che serve per avere decisioni giuste, logiche e coerenti, che non giungano dopo decenni e destinate a essere confermate negli eventuali successivi gradi di giudizio (un criterio di resistenza purtroppo attualmente estraneo ai criteri di valutazione dei magistrati), non è “l’ufficio del processo” (né l’aumento del personale della magistratura onoraria) ma un adeguamento quantitativo degli organici dei magistrati e del personale di cancelleria (attualmente pari alla metà degli organici degli altri Paesi Ue).

(*) Tratto dal Centro Studi Rosario Livatino

Aggiornato il 22 dicembre 2022 alle ore 15:28