Il calcio alla ricerca di equilibrio finanziario nel post-Covid

giovedì 14 aprile 2022


Con l’avanzare della pandemia molti settori economici, tra cui anche quello calcistico, si sono dovuti arrendere alle stringenti norme per arginare il virus. L’effetto Covid sul calcio ha lasciato il segno, se il mercato europeo ha subito una contrazione del 13 per cento nella stagione 2019-20, mentre i ricavi complessivi sono diminuiti di -3,7 miliardi di euro, arrivando a 25,2 miliardi di euro nella stagione 2019/20 (28,9 miliardi di euro nella stagione 2018/19). I cinque grandi campionati europei (Premier, Bundesliga, Serie A, Liga e Ligue 1) hanno registrato l’impatto finanziario più significativo, con ricavi complessivi in calo del -11 per cento (15,1 miliardi di euro contro i 17 della precedente).

Con l’avanzare dell’epidemia da Covid-19, soprattutto nel periodo tra gennaio 2020 e maggio 2020, molti settori economici, tra cui anche quello calcistico, hanno dovuto sottostare alle stringenti norme messe finalizzate ad arginare la diffusione del virus. Anche il campionato italiano di serie A ha subito conseguenze, come la sospensione provvisoria delle gare in calendario, sull’esempio delle coppe europee e degli altri campionati nazionali. Le società calcistiche, come le altre società, redigono regolare bilancio. Questo, si compone di tre documenti fondamentali: stato patrimoniale, conto economico e nota integrativa. Lo stato patrimoniale mette a confronto attività e passività, e fotografa il patrimonio del club; il conto economico raffronta ricavi e costi di competenza, e identifica il risultato d’esercizio; la nota integrativa contiene informazioni complementari allo scopo di chiarire i differenti valori scritti nelle diverse voci di bilancio.

Nel settore calcistico è stato molto difficile sviluppare una cultura gestionale simile a quella d’impresa. Per prassi non si è badato a spese nel fare investimenti per migliorare la rosa pur e vincere il maggior numero di competizioni, tralasciando l’attenzione ai costi e al risultato economico. La miopia di considerare quale unico obiettivo il successo sportivo ha portato un gran numero di club verso una fortissima instabilità economico finanziaria che solo i continui versamenti annuali, quasi a fondo perduto, dei proprietari sono riusciti a coprire. Quando questi fondi sono venuti meno, più di qualche compagine si è vista prossima al fallimento. L’emblematico caso del fallimento della Fiorentina è solo un esempio di come un club, anche con un passato vincente, possa mostrarsi incapace di gestire posizioni debitorie pesanti senza una struttura di business autosufficiente, non totalmente dipendente dai risultati sportivi. Negli ultimi tempi, grazie anche alle normative più stringenti in tema di bilancio, i club prestano maggiore attenzione ai conti, riducendo almeno in parte gli enormi passivi che ogni anno si verificavano. È evidente l’impossibilità di ritenere sufficienti le iniezioni di capitale dei presidenti. Si è resa necessaria l’importanza di sostenere il club con una struttura economica forte, che generi ricavi da più fonti e contenga i costi non necessari; è questo il modello di business corretto per continuare a competere.

Pur nel pieno della crisi da Covid i club professionistici italiani, dalla Serie A alla Serie C, hanno speso cifre impegnative. I denari per gli intermediari li si trova sempre. Un aspetto non inficiato dalla crisi è la corsa al rialzo degli stipendi: è un’arma messa a disposizione dei club più ricchi, e il principale motivo dell’espulsione del debito del calcio. Per trovare soluzione a questo problema è stata proposta l’adozione del Salary cap, il tetto salariale. Che però risulta molto difficile da esportare, poiché nello sport professionistico nordamericano esso si trova calato in un sistema di pesi e contrappesi che non viene ricostituito altrove. Inoltre, l’esperienza insegna che si fa presto a aggirare un tetto salariale facendo ricorso a cessione dei diritti d’immagine o altri artifici.

Allo stato dei fatti, l’applicazione del Salary cap al calcio, specie in ambito europeo, è apparsa finora una prospettiva velleitaria. Da diversi anni la Figc ha individuato tre nuovi parametri per monitorare l’equilibrio finanziario ed economico delle società di calcio e avvicinare il sistema delle licenze nazionali per le società di Serie A ai requisiti previsti dall’Uefa, mesi in pratica a partire dall’attuale stagione sportiva. Si tratta degli indicatori di liquidità, di indebitamento e del costo del lavoro allargato, per i quali sono stati previsti la misura minima, nel caso del primo, e il valore soglia, relativo agli altri due.

L’indicatore di liquidità è parametro è finalizzato a misurare il grado di equilibrio finanziario di breve termine, ossia la capacità di una società di far fronte agli impegni finanziari con scadenza entro i 12 mesi. Viene calcolato sulla base delle risultanze del bilancio d’esercizio e della relazione semestrale. In caso di mancato rispetto dell’indicatore di liquidità, la carenza finanziaria dovrà essere ripianata. Il secondo parametro introdotto dalla Figc è l’indicatore di indebitamento, teso a verificare il grado complessivo di indebitamento della società in rapporto al valore della produzione. Si tratta del raccordo tra la componente finanziaria dei debiti e quella economica del valore della produzione. Segnala in modo sintetico la sostenibilità dell’indebitamento e viene calcolato sulla base delle risultanze del bilancio d’esercizio e della relazione semestrale, mentre il valore della produzione è dato dal suo valore medio degli ultimi tre bilanci d’esercizio approvati. Il terzo parametro è l’indicatore di costo del lavoro allargato. Calcola il peso economico del costo del lavoro e viene determinato attraverso il rapporto tra il costo del lavoro allargato e i ricavi. Il costo del lavoro allargato include i costi per il personale, compresi gli ammortamenti dei diritti alle prestazioni dei calciatori. I ricavi comprendono quelli delle vendite e delle prestazioni, i proventi da sponsorizzazioni e pubblicità, le entrate commerciali e le royalties, quel che deriva dalla cessione dei diritti televisivi e le plusvalenze da cessione dei diritti alle prestazioni dei calciatori al netto delle relative minusvalenze.

Questi parametri sono stati derogati a seguito della contrazione dei ricavi dovuti dalla diffusione del virus: le società non possono permettersi di incrementare le passività, senza aver prima generato dell’attivo (o ridotto il passivo) capace di garantire un indicatore di liquidità in linea con quanto richiesto. Quindi solo dalla prossima stagione il mancato rispetto dell’indicatore di liquidità nella misura minima stabilita dal Consiglio federale determinerà per le società inadempienti il divieto di acquisizione del diritto alle prestazioni dei calciatori. A meno che presentino un saldo positivo della campagna trasferimenti, che dovrà tenere conto anche della differenza tra il costo contrattuale dei calciatori ceduti e il costo contrattuale dei calciatori acquisiti, comprensivo della quota di ammortamento dell’esercizio e degli eventuali oneri di diretta imputazione. Un divieto, quello di acquisizione del diritto alle prestazioni dei calciatori, che viene meno solo quando l’indicatore di liquidità viene ristabilito nella misura minima.

L’economia calcistica costituisce pertanto un sistema complesso, che viaggia lungo margini stretti e precari. La sofferenza complessiva del sistema, che nel corso del tempo perde pezzi della sua base, quando non riescono a mantenersi entro criteri di economicità, si riflette nella corsa all’arricchimento dei più ricchi che però continuano a produrre debiti e alimentano una bolla speculativa di proporzioni enormi. Una lettura credibile, non soltanto apocalittica, porta a vedere nell’esplosione della bolla speculativa il solo modo per vedere uscire l’economia calcistica da questa spirale di degrado incontrollabile.

A mio avviso, la lega di Serie A dovrebbe cercare un modo comune e progetti interessanti a breve e a medio termine per far crescere il campionato, e spronare i club, anche attraverso incentivi, a incrementare gli investimenti in settori nuovi e strategici. Uno strumento di richiamo per calciatori importanti, al fine di farli giocare in Italia, così da accrescere il valore e la visibilità del calcio italiano, potrebbe essere la tassazione agevolata per le persone straniere. Il regime fiscale agevolativo, previsto dall’articolo 5 del Decreto legislativo 34/2019, viene esteso anche nei confronti degli atleti professionisti stranieri, e dunque anche nei confronti dei calciatori e allenatori stranieri sprovvisti di un titolo di studio o di particolari specializzazioni professionali. Il calciatore professionista straniero che si trasferisce in Italia e sposta la propria residenza fiscale nel nostro paese, ha diritto a godere del regime fiscale agevolato e di detassare al 70 per cento, ai fini irpef, i redditi prodotti da lavoro dipendente in Italia, con conseguente tassazione del reddito imponibile nella sola misura del 30 per cento.

Ciò sta a significare che la tassazione verrà calcolata solo sul 30 per cento dello stipendio percepito dal calciatore professionista, potendo godere di una detassazione, per 5 anni, del 70 per cento del reddito di lavoro dipendente. Un’ulteriore riduzione del reddito imponibile, pari al 90 per cento, è stata prevista nel caso in cui il calciatore professionista decida di trasferirsi nelle regioni del sud-Italia (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna e Sicilia). Per fruire di queste agevolazioni vanno rispettate tre condizioni: aver avuto una residenza fiscale all’estero per almeno due anni precedenti al trasferimento in Italia; l’impegno a mantenere la residenza fiscale in Italia per almeno due anni successivi al trasferimento; lo svolgimento dell’attività lavorativa prevalentemente in Italia.

Risulta, però, ancora lunga la strada da percorrere per recuperare il gap che il calcio italiano ha contratto nei confronti delle principali leghe europee. Affinché ciò accada è necessario che il management delle varie società attui strategie gestionali dirette ad aumentare e diversificare le fonti di ricavo tenendo allo stesso tempo sotto controllo il costo del personale e gli ammortamenti del parco giocatori, che risultano essere due voci rilevanti del bilancio di un club di calcio: sono obiettivi raggiungibili sfruttando gran parte del potenziale ancora inespresso legato allo sviluppo e alla diffusione del brand, agli investimenti nei progetti riguardanti la creazione di un settore giovanile di elevata qualità, puntando sullo scouting e la valorizzazione dei giovani campioni, e infine effettuando investimenti negli impianti sportivi (concentrandosi sulla costruzione degli stadi di proprietà, essenziali per una crescita economica sostenibile e un incremento della redditività aziendale).

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino


di Daniele Onori (*)