Chi di giurisdizione ferisce…

Riflessioni a margine dell’azzeramento dei vertici della Cassazione da parte del Consiglio di Stato

La singolare tesi di Vladimiro Zagrebelsky, secondo cui “i rapporti e le competenze di organi di vertice nella architettura dello Stato” meriterebbero maggiore “prudenza”. Singolare a doppio titolo, da un lato perché l’applicazione della legge non dovrebbe retrocedere di fronte agli “organi di vertice”, quando è previsto il controllo giurisdizionale sugli atti degli organi medesimi; dall’altro perché questo richiamo a limiti non scritti della giurisdizione proviene da sostenitori della prevalenza della giurisdizione. Altrettanto singolare è la rapidità con cui nella seduta di oggi il Csm riaffermerà la propria decisione.

Le recenti sentenze del Consiglio di Stato, che hanno disposto l’annullamento delle nomine del primo presidente e del presidente aggiunto della Corte di Cassazione – nome effettuate dal Csm nel 2020 – hanno aperto a varie questioni, facendo perdere di vista principi fondamentali che invece meritano di essere ribaditi. La soggezione del pubblico potere al controllo giurisdizionale è principio fondamentale nell’esperienza giuridica degli stati di diritto, e i limiti che tale sindacato deve assumere sono oggetto di riflessioni, aggiustamenti e assestamenti ormai da secoli. Troppo lungo e complesso sarebbe ripercorrere anche soltanto brevemente la storia che ha condotto, in alcuni ordinamenti, tra i quali il nostro, all’elaborazione, accanto alla figura del diritto soggettivo, di una specifica posizione giuridica soggettiva da ritenersi coinvolta nei rapporti tra amministrato e amministrazione (l’interesse legittimo), alla devoluzione di essa alla cognizione di un giudice speciale (il giudice amministrativo), e alla delimitazione del sindacato sulla possibile violazione di essa in termini di incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge. Ciò che conta è che, nel suo nucleo essenziale, tale assetto risulta consolidato nel nostro ordinamento fin dal cosiddetto concordato giurisprudenziale “Romano-D’Amelio” del 1929-1930, recepito nella delineazione del nostro sistema costituzionale. L’evoluzione che si è avuta, da allora, attiene in special modo all’intensificazione del sindacato giurisdizionale in caso di atti vincolati, mentre il sindacato sull’eccesso di potere in caso di atti discrezionali della pubblica autorità, e in particolare il sindacato che coinvolge l’idoneità, razionalità e logicità della motivazione, costituisce parametro ormai consolidato del nostro sistema giuridico (e, in verità, lo è anche a livello sovranazionale).

In questa prospettiva, far dipendere “l’intensità” del controllo sul corretto esercizio del potere dalla delicatezza delle posizioni coinvolte e dall’importanza del ruolo della pubblica autorità coinvolta, nel senso di attenuarlo tanto più quanto più è delicata e importante la faccenda, appare corrispondere all’esatto contrario di quanto richiesto dai principi dello stato di diritto, come configurato dal nostro sistema costituzionale. Quanto più è alta e importante la funzione pubblica che si esercita, tanto più la legittimità del relativo agire deve essere garantita. Non può, quindi, ragionevolmente sostenersi che, quando “si tratta dei rapporti e delle competenze di organi di vertice nella architettura dello Stato”, “la prudenza e il ritegno da parte di tutti conta più dell’esito di astratte considerazioni giuridiche, la cui naturale e opportuna elasticità lascia appunto spazio alla prudenza” (è il ragionamento di Vladimiro Zagrebelsky, Così legislatore e Consiglio di Stato snaturano il Csm, su La Stampa, 18 gennaio 2022). La forza del principio di legalità è proprio quella di vincolare senza timori reverenziali gli stessi organi di vertice dello Stato, i quali solo per il caso limitatissimo degli atti “politici” (articolo 7, comma 1 Codice del processo amministrativo) possono considerarsi esclusi dal sindacato giurisdizionale, che è svolto dai giudici comuni (ordinari o amministrativi, a seconda dei casi) o, per il caso degli atti legislativi, da quel particolare giudice che è la Corte Costituzionale. Non è quindi giuridicamente corretta l’affermazione per cui, nei casi di discrezionalità esercitata dagli organi di vertice del sistema, l’operazione di contemperamento dei vari interessi in gioco che è chiamata a compiere l’autorità “non è univoca ed è necessaria una sintesi complessiva la cui opinabilità si espone alla critica, non secondo il criterio del giusto/sbagliato, ma piuttosto dell’opportuno e persuasivo” (idem). La ragionevolezza e la coerenza logica sono e rimangono ben sindacabili secondo il canone “giusto/sbagliato” anche in caso di attività discrezionale, e anche in caso di atti di alta amministrazione, secondo il già menzionato parametro dell’eccesso di potere (articolo 21-octies, comma 1 legge n. 241/1990). Non si tratta di “sostituire la valutazione discrezionale” di un giudice a quella dell’organo, ma di controllare che essa sia avvenuta correttamente, ciò che deve essere garantito anche per gli atti di alta amministrazione. Non si tratta di “griglie astratte che invitano il giudice amministrativo a trovar difetti nelle motivazioni dei provvedimenti” (idem), ma del distillato di secoli di elaborazione giuridica.

Per questo motivo, una critica delle sentenze del Consiglio di Stato che hanno annullato le nomine dei vertici della Cassazione potrebbe essere portata avanti se si ritenesse che esse hanno travalicato, nel caso di specie, i limiti del sindacato sull’eccesso di potere che l’ordinamento attribuisce al Consiglio di Stato stesso la funzione di compiere; ma non per il fatto in sé di aver inciso su decisioni delicate, discrezionali, e che attengono ai vertici del potere giudiziario. Un tempo era uso raffigurare la giustizia come una dea bendata: e se il giudice del potere amministrativo riesce a non farsi influenzare dall’importanza dell’autorità che ha di fronte e ad applicare la legge in modo uniforme “senza guardare in faccia a nessuno” è segno che esso rappresenta un presidio vero, non solo formale, di tutela delle legalità del sistema. Qualcosa di cui tutto l’ordinamento dovrebbe felicitarsi, al di là dell’esito del caso singolo e delle reazioni Secundum eventum litis.

Sotto altro profilo, sorprende che le doglianze per le presunte ingerenze dell’autorità giudiziaria provengano anche e prevalentemente da parte di giuristi i quali, in molteplici occasioni, si sono fatti fautori dell’attivismo giudiziario. Anche sul punto, occorre porre chiarezza su alcuni aspetti di fondo. Il sistema giudiziario è soggetto alla legge (articolo 101 della Costituzione) non soltanto quando si tratti di applicarla nei confronti della pubblica autorità, ma anche quando si tratti di applicarla nei rapporti tra privati. Sostenere che il giudice debba adottare un self-restraint quando deve verificare la legalità di un atto di un pubblico potere, specialmente se è importante, e sostenere che invece debba andare oltre (se non contro) la legge nel caso in cui debba occuparsi, per esempio, dei cosiddetti “nuovi diritti” equivale a sostenere che i pubblici poteri non sarebbero soggetti alla legge alla pari degli amministrati. Ciò si pone, ancora una volta, in contrasto con i principi basilari del nostro ordinamento. Chi sostiene l’attivismo giudiziario quando si tratta di “nuovi diritti”, o quando ci si inserisce nel solco della “invenzione del diritto”, non può, coerentemente, dolersi che un giudice a suo avviso abbia travalicato i compiti che gli assegna la legge, sempre che ciò sia realmente accaduto. L’esito eventualmente indesiderato di un lamentato attivismo giudiziario dovrebbe indurre l’interprete a convenire che l’attinenza dell’attività del giudice al rispetto alla legge costituisce una regola del gioco avente valore centrale per l’ordinamento e, come tale, da rispettare scrupolosamente anche quando la legge rispecchia valori che l’interprete stesso non condivide (salvo naturalmente la possibilità che il giudice sollevi una questione di costituzionalità in caso di ritenuto contrasto tra legge e Costituzione). Altrimenti, chi di attivismo giudiziario ferisce, di attivismo giudiziario dev’esser disponibile a perire.

Da ultimo, si commenta da sé la singolare rapidità con cui il Csm sta provvedendo all’approvazione di una nuova delibera di conferma – con motivazione “rafforzata” – delle nomine ai vertici della Cassazione, per la ragione, ci si augura non trasposta nel provvedimento, dell’imminente inaugurazione dell’anno giudiziario, che sarebbe sgradevole svolgere senza il primo presidente e il presidente aggiunto. Se non altro perché in questo momento esistono casi, di obiettivo minor rilievo, di nomine di presidenti di altri uffici giudiziari effettuate dal Consiglio, sui quali è intervenuto l’annullamento del Giudice amministrativo, cui il Csm né ha dato esecuzione né ha fatto seguire una nuova delibera che ribadisca quanto prima deciso. E comunque, se si sono verificati casi frequenti in cui l’operatività di un organo sia stata considerata contraria ai parametri di legittimità richiesti dall’ordinamento, occorre chiedersi se tali parametri siano chiari e capaci di indirizzare in modo appropriato l’esercizio dell’interesse pubblico da parte dell’organo stesso. Così, a fronte delle plurime decisioni del Consiglio di Stato nel senso di annullare le nomine a incarichi giudiziari direttivi disposte dal Csm – si rammenti, fra le altre, la clamorosa bocciatura della nomina del procuratore della Repubblica di Roma – la prima cosa da fare sarebbe interrogarsi sull’idoneità delle regole di funzionamento del Csm, nonché delle norme che presiedono alle valutazioni che esso deve compiere, per garantire in modo soddisfacente la realizzazione dell’interesse pubblico che il Csm stesso deve perseguire: a conferma che, più che del “caso Palamara” dovrebbe parlarsi del “caso Csm”, essendo stato egli soltanto uno degli interpreti di un sistema che continua a essere ammalato. A interrogarsi in tal senso dovrebbero essere il Parlamento, che di tale normativa è l’autore e che delle necessità di modifiche e aggiornamenti deve farsi carico, il Governo, al cui interno siede il ministro della Giustizia, e prima ancora il capo dello Stato, che del Consiglio è presidente. Che qualcosa nell’attuale funzionamento del Csm non funzioni non sembra essere solo il Consiglio di Stato a rilevarlo.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 20 gennaio 2022 alle ore 09:57