Una piccola questione, ma non troppo

Si dirà che non è una questione importante ma, in realtà, nasconde un’attitudine tipicamente italiana che è bene sottolineare, magari sorridendo. Mi riferisco alla ostinata tendenza, da parte di uomini politici, persino ministri, conduttori televisivi e commentatori vari, a impiegare termini inglesi al posto dei corrispondenti termini italiani. Un’abitudine, derisa anche da Mario Draghi con una felice battuta poco dopo il suo insediamento, che tuttavia non è accompagnata da una scrupolosa pronuncia. Intendiamoci: conoscere per bene la pronuncia inglese non è obbligatorio ma, se uno decide di usare un termine di quella lingua, non si capisce perché non debba informarsi sulla sua esatta dizione. Chiunque, come il sottoscritto, possieda una conoscenza dell’inglese piuttosto pragmatica e ne faccia uso unicamente per leggere, scrivere una bozza o conversare con qualche collega straniero, commette piuttosto spesso errori di pronuncia e, non raramente, viene per questo corretto opportunamente da chi ne sa di più. Ma, dovendo parlare in pubblico in una lingua straniera, una maggiore accuratezza sarebbe auspicabile.

Invece, assistiamo continuamente alla storpiatura di parole inglesi come cash, gap, plan, land, flat, map pronunciate, credendo di esibire la propria preparazione linguistica, con una “e” al posto della “a”, cosicché esse diventano kesh, gep, plen, lend, flet, mep. Fornendo così, fra l’altro, un pessimo “servizio pubblico” nei riguardi di coloro che, giovani o meno, formano la propria competenza sulla base di ciò che ascoltano in televisione. Eppure, oggi, basterebbe che uno usasse il traduttore di Google per constatare che la “a” non sempre si trasforma in “e”. Forse non aveva il tempo di farlo il ministro Angelino Alfano quando, arrivato, mi pare, a Bruxelles in ritardo, indicò nel waind (il vento, wind, che si pronuncia uind) la causa del contrattempo. Ma certamente avrebbe avuto il tempo necessario Piergiorgio Odifreddi prima di sfoggiare, poco fa, un bel green pess al posto del corretto green pass.

È comprensibile che, quando un’espressione entra in un certo modo nel lessico comune, divenga accettabile di fatto, ma rimane pur sempre un errore. È ciò che accade quando diciamo “il” Covid che tutti adottano come maschile. Solo il professor Massimo Galli ha recentemente usato l’articolo la per riferirsi a quella che la “d” finale intende, cioè una disease, una malattia.

Ovviamente da una conduttrice televisiva che non esita ad impiegare forme quali “a me mi pare”, cercando nel contempo di ostentare una pronuncia inglese più corretta di quella italiana, non c’è molto da aspettare. Ma una maggiore scrupolosità da parte di personaggi pubblici, i quali credono di mostrare la propria dimestichezza con la lingua che, oggi, è oggettivamente viatico delle relazioni internazionali, sarebbe sicuramente gradita.

Aggiornato il 16 settembre 2021 alle ore 10:54