S. M. Capua Vetere: per una riforma del sistema penitenziario

mercoledì 7 luglio 2021


Le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere – Nei giorni scorsi è esploso lo scandalo delle violenze compiute dagli agenti penitenziari sui detenuti nella Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile 2020. Gli eventi si sono verificati nel momento culminante nell’emergenza Covid-19. Anche se gli effetti pregiudizievoli sulla salute dei cittadini si sono registrati per un notevole lasso di tempo, il mese di aprile 2020 segnò il punto più alto della tensione sociale. Il panico, agitato irresponsabilmente dai media, pervase le fasce più fragili della società. La popolazione detenuta, privata per ragioni di prevenzione sanitaria del contatto con i familiari, rimasta in balìa dell’allarmismo senza ritegno delle televisioni, dette vita a manifestazioni di protesta in varie carceri del nostro paese, che provocarono il rischio di una generalizzata rivolta carceraria, i cui effetti sarebbero stati devastanti per l’intero Paese.

Il contesto storico – Il ministro di Giustizia dell’epoca in questa drammatica situazione restò quasi completamente inerte, limitandosi ad auspicare che il ceto dei giudici, nelle sue varie competenze istituzionali, assumesse provvedimenti, in quanto ammissibili, a favore della liberazione in misura più ampia possibile dei soggetti ristretti. Raccomandazioni di tal genere furono pessime per molteplici ragioni, sia perché scaricarono sulla magistratura di sorveglianza obiettivi – a legislazione vigente – praticamente irrealizzabili, sia perché alimentarono all’interno delle carceri, nonché all’esterno, nel cerchio ampio delle relazioni familiari e amicali, aspettative irragionevoli circa soluzioni immediate al rischio della diffusione di un virus, altamente contagioso, in luoghi chiusi e ristretti, ove è impossibile garantire gli spazi necessari per quel distanziamento fisico che gli esperti predicavano come indispensabile per la salute dell’intero corpo sociale. Sul fuoco del disagio dei detenuti e delle loro famiglie gettarono peraltro benzina vari esponenti della cosiddetta società civile e della classe politica che si occupano, talora lodevolmente, ma spesso anche demagogicamente, della tutela delle condizione dei detenuti nelle carceri italiane.

La proposta di una misura generale di tipo clemenzialeIl Centro Studi Livatino, per intervento del sottoscritto, ebbe a proporre un provvedimento indulgenziale, nella misura di un anno di remissione di pena detentiva per ogni condannato in via definitiva, senza restrizioni in ordine al tipo di reato per cui fosse stata pronunciata condanna. Questa proposta non venne presa in considerazione dal Governo e dal Parlamento per ragioni demagogiche, nel timore che l’assunzione di una misura indulgenziale provocasse delle crepe all’immagine di securitarismo di cui l’incapace ministro della Giustizia si era fatto rappresentante supremo. L’applicazione immediata di un indulto nella misura e con le modalità sopra indicate avrebbe avuto effetti decisivamente positivi per almeno tre ordini di ragioni: I) avrebbe posto in libertà immediata, senza forzature in sede di giudizio dei tribunali di sorveglianza, qualche migliaio di detenuti, liberando spazi preziosi per il distanziamento sociale all’interno delle carceri; II) avrebbe dimostrato concretamente che lo Stato, rispettando la sofferenza dei reclusi, rispondeva, all’accrescersi di questa per causa del Covid, con un gesto di clemenza; III) avrebbe posto un freno all’eventuale rivolta carceraria, fornendo un sostanzioso premio a tutti purché si astenessero dal provocare disordini. Il tutto nel più rigoroso rispetto del principio di uguaglianza, giacché la sofferenza della pena è uguale per tutti i condannati. Il carattere ugualitario della misura avrebbe peraltro scongiurato quel cumulo di recriminazioni e di rancori che si moltiplicano tra i reclusi quando vedono uscire dal carcere, per provvedimento discrezionale della magistratura, persone della cui diversità di posizione rispetto alla propria non riescono ad avere l’evidenza. Il tutto, peraltro, si sarebbe attuato nella riaffermazione pacificante, anche per la società civile, che il primato della legge e l’autorità dello Stato non sono scalfiti quando gli organi costituzionali, in specie il Parlamento e il Governo, promulgano misure di clemenza controllata e delimitata in ragione di una situazione eccezionale di sofferenza, vissuta dall’intero corpo sociale, ma accentuata particolarmente per quella porzione di cittadini sottoposta a privazione coercitiva della libertà e a limitazione degli altri diritti costituzionali, soprattutto degli incontri di colloquio con i propri familiari. L’odio contro le misure di clemenza, indotto dall’ideologia repressiva, è condiviso assurdamente anche dalla quasi totalità del ceto dei giudici, almeno ai suoi vertici associativi – forse perché sottrae a essi quell’esclusività di potere di cui essi si sentono portatori per un’investitura quasi sacra, temendo che il Parlamento e il Governo si ingeriscano nelle cose loro? Ma il diritto di amnistia e di indulto non è previsto dalla Costituzione come prerogativa propria ed esclusiva del Parlamento? Perché di questa prerogativa il Parlamento non ha più il coraggio di far uso?

L’abnegazione della Polizia penitenziaria – La soluzione della gravissima emergenza avvenne, naturalmente con tutte le difficoltà e gli insuccessi indotti dalla carenza di risorse e di organizzazione, grazie all’abnegazione del corpo di Polizia penitenziaria. I suoi capi, in tutte le carceri d’Italia, resero i membri del corpo reclusi tra i reclusi, allo scopo di sovvenire all’innumerevole serie di esigenze che via via si presentavano come inderogabili. Dall’aumento degli spazi di libertà ai detenuti per evitare troppo a lungo il contatto fisico all’accresciuto bisogno di sorveglianza dei detenuti pericolosi; dall’intervento pacificatore dei tumulti e dalla sedazione dei focolai di rivolta al moltiplicarsi dei servizi di assistenza dei malati e del loro trasferimento nei centri ospedalieri: ebbene, di tutto ciò si è fatto valorosamente carico il corpo della Polizia penitenziaria, senza alcun riconoscimento di tipo economico o indennitario e senza che neppure il ministro della Giustizia se ne sia uscito con un ringraziamento per l’immane opera compiuta. Se è vero – come è vero – che l’emergenza è stata superata, senza che, per grave responsabilità del ministro, del Governo e dell’intero Parlamento siano state realizzate negli ultimi anni, nonostante la condanna della Corte Europea, le opere strutturali indispensabili per risolvere il drammatico problema dell’affollamento giudiziario e dell’insufficienza di spazi interni necessari per la riabilitazione dei condannati: ebbene il merito è principalmente della Polizia penitenziaria.

L’incongruità delle lamentele di tipo vittimario – Anche sulle lamentele di tipo vittimario che vengono agitate da molti va detta una parola che ristabilisca la verità contro la demagogia dei fautori dell’utopia anti-penale. Costoro propagano uno sfacciato nichilismo anti-penale sui mezzi di comunicazione di massa, proponendo una sorta di abolizione della pena detentiva. Alimentano così il rancore nella popolazione ristretta nelle carceri. Tutti gli uomini, anche i responsabili dei più gravi delitti, si possono redimere dalla colpa. Pertanto tutti debbono essere sostenuti sulla via della riabilitazione. Lo dico anche come avvocato che ha ricevuto, nella sua quasi cinquantennale esperienza di assistenza tanto degli sbandati quanto degli autori di efferati delitti, la testimonianza viva dell’autentico desiderio di riabilitazione morale e sociale di alcuni suoi assistiti. Tuttavia, in ogni società vi è una quota di persone, maggiore o minore, a seconda della barbarie delle abitudini contratte in società, che – per dirla con Giambattista Vico – “per malvagio costume o per mal genio” hanno quasi totalmente spento in se stessi “ogni senso umano”. Anche con costoro va perseguito il tentativo di riabilitazione. Ma curando che tale via non costituisca per costoro lo strumento per continuare a delinquere, ove posti in condizioni di attenuata detenzione, ovvero il mezzo per fomentare all’interno delle carceri la violenza e la prevaricazione.

Le raccomandazioni di soft law del Dap – Per le carceri italiane la Direzione nazionale penitenziaria ha diramato negli ultimi anni raccomandazioni di soft law affinché la sorveglianza dei detenuti sia svolta in maniera flessibile e dinamica, lasciando agli stessi ampi spazi di libertà rispetto al confinamento cellulare. Favorire la socialità intracarceraria può essere buona cosa, purché si tratti di socialità controllata dall’autorità competente per la corretta esecuzione della pena. Se così non avviene e l’autorità si ritira silenziosamente dallo scenario, è inevitabile che dentro una socialità informe vengano a prevalere dapprima la confusione anarchica fomentatrice di incomprensioni, litigi, risse e tumulti e, successivamente, allo scopo di mitigare l’intollerabilità esistenziale di una sopravvivenza senza un barlume di ordine, la regola, più rassicurante per tutti, della sopraffazione dei più violenti sui meno violenti, dei più spregiudicati sui più timidi; in altri termini, dei potenti sui deboli. Le raccomandazioni di soft law al personale penitenziario – in primis ai direttori – cui ho brevemente accennato, stanno pregiudicando l’esecuzione della pena costituzionalmente orientata al principio dell’emenda per tre fondamentali ragioni: I) perché eludono il principio che lo Stato deve mettere a disposizione dei condannati i mezzi idonei per il lavoro, per la formazione professionale, per lo studio e per le varie forme di apprendimento dei mestieri, la cui applicazione però deve essere regolata secondo programmi operativi approvati e controllati dall’autorità esecutiva. L’autogestione della libertà senza la copertura degli spazi ove questa si esercita con mezzi idonei affinché i detenuti impegnino positivamente la loro libertà, significa abbandonarli a una sopravvivenza chiusa al miglioramento; II) perché non contengono la rissosità dei più violenti, non frenano l’arroganza dei peggiori a scapito della timidezza dei migliori, facendo del luogo del carcere una curva da stadio occupata da persone urlanti e indisciplinate; III) perché moltiplicano lo sforzo degli agenti penitenziari di controllare l’esistenza di una collettività senza regole, secondo metodologie di flessibilità operativa che impongono alle guardie la tattica della ritirata allo scopo di evitare il contatto fisico con i detenuti.

Il logorio delle forze di Polizia – Questo stato avvelenato di relazioni intracarcerarie costringe la Polizia penitenziaria a una sorveglianza logorante, senza fruire di riposi adeguati e di indennità compensative, tale da provocare un intenso stato di frustrazione per le ingiustizie e le illegalità che è costretta a tollerare. Va con forza detto che i detenuti e le guardie non costituiscono una comunità omogenea che l’ordinamento giuridico dovrebbe trattare allo stesso modo. I detenuti sono soggetti ad esecuzione di una pena loro erogata dalla legittima autorità giudiziaria; le guardie non sono i loro compagni, bensì i componenti di un corpo dello Stato costretti a un lavoro difficile per servire la comunità e per guadagnarsi l’esistenza. Non debbono assolutamente essere equiparati in tutto e per tutto ai primi in ragione della comune condizione di membri di una medesima struttura. Tra gli uni e gli altri deve essere conservata una distinzione essenziale, che spiace ai cultori dell’utopia anti-penale, in relazione al fatto che gli uni sono umili e leali servitori dello Stato; gli altri offensori delle sue leggi. Se è giusto tutelare i diritti dei detenuti, è gravemente colpevole svalutare il ruolo cruciale che la Polizia penitenziaria ha nel garantire la giustizia dello Stato. Allo stesso modo è ingiusto ledere i diritti della Polizia nel suo fondamentale compito di assicurare l’ordine delle carceri contro coloro che lo sabotano. L’ingiusta ideologia che parifica due categorie di persone, diverse per i rispettivi diritti e doveri, deve essere vigorosamente contrastata con la sottolineatura dell’essenzialità della Polizia penitenziaria al bene comune. Questo compito spetta a tutti, ma in particolare al Governo, che è l’organo responsabile dell’esecuzione delle sentenze.

Un giudizio provvisorio sui fatti in attesa delle pronunce dell’autorità giudiziaria – Sulle violenze commesse nel carcere di Santa Maria Capua Vetere spetterà alla magistratura emettere le giuste sentenze all’esito di un equo processo. Valgano qui soltanto alcuni rilievi. Il primo: la gravità della situazione relativa all’ordine interno del carcere imponeva probabilmente che si eseguisse una perquisizione locale e personale nei reparti ove si erano verificate le violenze, i comportamenti di insubordinazione e financo i saccheggi. Il secondo: questo tipo di perquisizioni sollevano inevitabilmente gravi problemi in quanto la violazione, pur legittima, degli spazi intimi di libertà appare al detenuto un atto di sopruso. Il terzo: la responsabilità principale dell’accaduto è dei comandanti che non hanno saputo governare una situazione incandescente e di alta tensione emotiva. Il quarto: le violenze ingiustificate delle guardie trovano motivi di mitigazione di colpa nella resistenza opposta dai detenuti, nelle violenze da costoro commesse in precedenza, nell’obiettiva probabilità di reazioni incontrollabili da parte degli stessi, nella pericolosità di una possibile rivolta carceraria generalizzata in un quadro di grave turbamento sociale per l’incombenza del propagarsi incontrollato del virus. A questi aspetti, che la difesa degli accusati saprà far valere nelle sedi giudiziarie competenti, va aggiunto che l’ostensione da parte della Procura della Repubblica delle immagini video registrate, in quanto non necessaria in questa fase delle indagini per la difesa degli accusati, è censurabile in ragione del pregiudizio che la loro diffusione mediatica ha provocato ai danni dell’intero corpo della Polizia penitenziaria, del cui onesto servizio a tutela della legalità la società rischia facilmente di dimenticarsi.

Appello al ministro della Giustizia – Al nuovo ministro della Giustizia rivolgo un appello, consapevole che essa, pur priva dell’esperienza pratica della giustizia criminale, saprà avvalersi di consulenti accorti allo scopo di procedere a una riforma del sistema penitenziario e della stessa esecuzione penale esterna secondo princìpi realistici e non demagogici. Oggi il compito essenziale è costituito dall’impiego cospicuo di risorse economiche e umane per l’esecuzione penale inframuraria, che mettano a disposizione degli operatori penitenziari e dei detenuti spazi adeguati per superare realmente il cronico problema del sovraffollamento. Per l’esecuzione penale extramuraria v’è l’esigenza di creare strutture organizzative statali – e non di volontariato – che rendano effettiva l’esecuzione penale tramite il lavoro del condannato per fini di pubblica utilità. Ciò va fatto senza alcun retro-pensiero riveniente dall’utopia anti-penale, moneta corrente di molti ambienti, vuoi parascientifici, vuoi del volontariato, secondo cui la pena, in quanto tale, sarebbe un ferro vecchio da sotterrare per sempre. L’esperienza insegna che purtroppo le cose non stanno così. L’emergenza criminale è drammaticamente presente nella società contemporanea, in qualsiasi paese del mondo, anche, e forse soprattutto, nell’Occidente immerso in una crisi di civiltà che gli ha fatto smarrire le più essenziali distinzioni tra il bene e il male.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino


di Mauro Ronco (*)