L’Università degli “elevati” e l’Università della “suprema”

martedì 6 aprile 2021


Commenti su l’eterno “Lockdown” dell’Università

Abbiamo apprezzato il lodevole tentativo fatto sul quotidiano la Repubblica lo scorso 17 marzo da due autorevoli e qualificate personalità quali Tito Boeri e Roberto Perotti (gli “elevati”) di portare all’attenzione dell’opinione pubblica il tema dell’Università e della Ricerca in Italia. Un tema, purtroppo, troppo trascurato da tutte le parti politiche che lo considerano specialistico e con un basso bacino elettorale, per cui meglio lasciarlo agli “intellettuali di turno”. L’articolo citato ha innescato un vivace dibattito in cui proviamo umilmente ad inserirci con riferimento anche al commento della senatrice a vita Elena Cattaneo (la “suprema”, Beppe Grillo docet) apparso sullo stesso quotidiano lo scorso 18 marzo.

A nostro modesto avviso, gli autori su citati hanno affrontato il problema del finanziamento pubblico della ricerca universitaria in modo puramente virtuale, prospettando delle soluzioni salvifiche ed antitetiche fra loro, che vedono comunque l’Università come il centro del mondo (il loro...). Sembra superfluo ricordare che le Università italiane si differenziano per storia (alcune plurisecolari altre istituite solo da alcuni decenni), per varietà e quantità delle discipline, per le condizioni socioeconomiche territoriali, per il bacino di formazione, per i collegamenti con il mondo imprenditoriale italiano caratterizzato essenzialmente dalle Pmi.

Che senso ha valutare un’Università come la Sapienza di Roma, la più grande in Europa con un bacino di oltre 150mila studenti, con altre Università? Valutare l’Università nel suo complesso serve solo alle più grandi di queste per nascondere meglio i cosiddetti rami secchi”, cioè quei dipartimenti poco brillanti che possono così continuare tranquillamente a sopravvivere non incidendo molto sulla “qualità media” dell’università.

I criteri per le assegnazioni delle risorse pubbliche dovrebbe basarsi a nostro avviso, principalmente, sulla capacità che ciascun dipartimento universitario ha di produrre risultati concreti e quindi facilmente documentabili e, non meno importante, dalla sua capacità di acquisire fondi di ricerca dal sistema produttivo privato; solo in questo modo un dipartimento virtuoso di una piccola Università può gareggiare alla pari con quello analogo di una grande Università. È doveroso segnalare che i due “elevati”, nel loro successivo articolo su Repubblica dello scorso 31 marzo, sembrano scoprire il ruolo importante dei dipartimenti universitari, ma continuano ad immaginare un’università dell’eccellenza imposta dai soliti eccellenti.

Se per un attimo riuscissimo ad evitare di guardare solo al cielo  (la sede degli Dei) e volgessimo il nostro sguardo in terra (la nostra sede naturale), ci accorgeremmo che in un Paese “familista” come l’Italia il problema non sono solo le scarse risorse finanziarie pubbliche ed il basso numero degli addetti alla ricerca universitaria, ma la fragilità e la frammentazione di tutto il sistema di ricerca e, quindi, anche degli Enti pubblici di ricerca, delle istituzioni private e del sistema industriale italiano.

Il problema fondamentale per l’Associazione Astri risiede nell’anomala “governance delle strutture pubbliche della ricerca. Purtroppo, le logiche che governano spesso le strutture pubbliche di ricerca (Università ed Enti pubblici di ricerca) tendono a privilegiare l’appartenenza identitaria e/o familistica anziché la competenza ed il merito dei ricercatori. Questa anomalia italica è alla base della “scarsa attrattività delle nostre strutture di ricerca”.

Per cercare di risolvere questo problema non dobbiamo inventarci nulla di nuovo che già non esista da decenni in altri Paesi europei nostri competitori, favorendo la mobilità dei ricercatori italiani tra strutture pubbliche e private per stimolare una contaminazione reciproca, e soprattutto la mobilità non episodica di ricercatori provenienti dai maggiori Paesi europei verso l’Italia. Pertanto, pensare che con le sole risorse del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) si riesca a risolvere il problema della qualità della ricerca e della conseguente maggiore competitività del Paese, è pura illusione.

Infatti, con la proposta di Cattaneo si rischia di distribuire a pioggia le risorse sprecandole e in alternativa (proposta Boeri/Perotti) di costruire pseudo isole felici, con il patronaggio dei soliti referenti politici, avulse dal complesso delle università (vedere l’Iit, Istituto italiano di Tecnologia, fondato nel 2005 che, pur essendo un ente con la missione di occuparsi di tecnologia e ricerca, non ha alcuna relazione con il ministero dell’Università e della Ricerca).

Infine segnaliamo come l’Università e la ricerca italiana, purtroppo, sono ancora in “lockdown” e non solo per la disattenzione riservatagli in emergenza Covid-19, ma anche per il silenzio assordante del nuovo ministro dell’Università e della Ricerca, a cui facciamo comunque gli auguri di buon lavoro, che nulla ha detto sull’esigenza inderogabile di riprogettare la governance del Sistema dell’Università, della Ricerca e dell’Innovazione con l’istituzione di una Agenzia nazionale della ricerca e della innovazione (seria) per consentirci di utilizzare proficuamente le risorse del Next Generation Eu e competere adeguatamente in Europa e nel mondo.

(*) Socio Astri, ex direttore dell’Istituto Ifsi-Inaf, ex consigliere scientifico dal 2009 al 2015 del Miur, ex componente della Giunta esecutiva e del Consiglio direttivo Infn


di Paolo Bonifazi (*)