Perché in Italia sbagliamo a parlare di “emergenza demografica”

Tratto dall’intervento in occasione del seminario “Italia e Giappone alla sfida della demografia. Una popolazione sostenibile per lo sviluppo sociale ed economico”, organizzato da Osservatorio Ethos Luiss Business School e Ambasciata del Giappone in Italia.

La pandemia da Covid-19 e i suoi effetti negativi hanno amplificato la tendenza al declino della popolazione cui in Italia assistiamo ormai dal 2015. Come reso noto la scorsa settimana dall’Istat, presieduto dal professore Gian Carlo Blangiardo, “al 31 dicembre 2020 la popolazione residente è inferiore di quasi 384 mila unità rispetto all’inizio dell’anno, come se fosse sparita una città grande quanto Firenze”. In Italia, a fronte di dati simili, c’è chi continua a parlare di “emergenza demografica”. Eppure, considerata la profondità e la durata di questo fenomeno – tra intenso invecchiamento e bassissima natalità – parlare di “emergenza” è fuori luogo, quantomeno riduttivo. L’Italia piuttosto è afflitta da un decennale malessere demografico. Prenderne atto non è solo questione di correttezza linguistica, ma l’unica premessa per mettere in campo politiche adeguate.

“È accaduto in Italia per la prima volta. Correva l’anno 1995”. Inizia con queste parole un recente saggio intitolato “Lo storico capovolgimento delle popolazioni”, firmato da Joseph Chamie, uno dei più illustri demografi dei nostri giorni e già direttore della Divisione per la Popolazione delle Nazioni Unite, organismo che ho avuto modo di frequentare qualche decennio fa rappresentandovi l’Italia. Lo “storico capovolgimento” di cui Chamie rintraccia le origini nel nostro Paese è “il punto di svolta demografico in corrispondenza del quale i ragazzi di una certa popolazione diventano meno numerosi degli anziani”. Tale svolta nella storia della società umana si è verificata per la prima volta in Italia, alla metà degli anni Novanta del secolo scorso. Cinque anni dopo toccò ad altri sei Paesi, tra i quali il Giappone. Roma e Tokyo, non a caso, sono ancora oggi in prima linea a livello globale nel processo di invecchiamento della popolazione.

Gli effetti si vedono qui ed ora, nella forza lavoro per esempio. Nel 2018 in Italia gli occupati di età compresa tra i 15 e i 34 anni, quelli che definiamo “giovani”, erano 5 milioni e 77mila, il 40,8 per cento dei 12,5 milioni di residenti della stessa età. Appena venti anni prima, i giovani lavoratori erano 7,6 milioni, il 46,4 per cento dei 16,5 milioni di giovani di allora. Nel 2018, dunque, avevamo un terzo dei giovani occupati in meno rispetto al 1998. C’entra la crisi, ma soprattutto il fatto che negli ultimi vent’anni un giovane italiano su quattro è letteralmente svanito nel nulla. Di nuovo, colpiscono le somiglianze col Giappone, in cui la forza lavoro complessiva è in diminuzione già dagli anni Novanta. Secondo il World Economic Forum, Italia e Giappone – assieme alla Corea del Sud – saranno i Paesi che vedranno ridursi maggiormente la propria forza lavoro nei prossimi 25 anni.

C’è un altro curioso parallelismo tra Roma e Tokyo. I due Paesi assistono contemporaneamente a una riduzione della natalità e a un’espansione del debito pubblico. Forse è impossibile tracciare un nesso causale diretto tra questi due fenomeni, eppure ho l’impressione che l’uomo o la donna comune, pur non masticando macroeconomia e pur non seguendo quotidianamente l’andamento del rapporto debito pubblico-Pil, percepisca che un debito pubblico quasi insostenibile è sinonimo di più tasse e meno servizi negli anni a venire, insomma di un ambiente meno ospitale per un futuro figlio o un futuro figlio in più.

A colpire dell’esperienza giapponese, però, è il modo in cui la demografia si colloca al centro del dibattito pubblico da anni, anzi da decenni. In Italia, per ragioni storiche e culturali, oltre che per scarsa lungimiranza delle classi dirigenti, ci siamo comportati a lungo come se il problema non esistesse. Quando negli anni Settanta cominciai a studiare i dati (pubblici) a nostra disposizione, mettendo in guardia da una possibile implosione demografica prossima ventura in Italia e nel nostro continente, mi si rispondeva citando opere internazionali più à la page – seppure poi dimostratesi fallaci – come “The Population Bomb”, il libro uscito nel 1968 a firma di Paul Ehrlich. Oggi, quando compulsiamo attoniti i dati dell’Istat, paghiamo anche la prolungata assenza di un dibattito pubblico sul tema. In Giappone la natalità è ancora bassa, ma molte politiche sono state tentate, alcune per tempo. In estrema sintesi: ripensamento delle cure sanitarie per i più anziani, innovazione tecnologica per accompagnare l’invecchiamento della popolazione e della forza lavoro in particolare, la cosiddetta “Womenomics” per colmare il gap di occupazione e di salario tra uomini e donne, aiuti strutturali per la natalità, immigrazione altamente qualificata. L’esperienza giapponese suona allo stesso tempo come un avvertimento: quando si ha a che fare con la demografia, non esistono soluzioni facili e immediate.

Eppure, una società come la nostra, che si riempie la bocca dell’espressione “sostenibilità” e in cui da mesi discutiamo di un programma di aiuti europei chiamato “Next Generation Eu”, dovrebbe discutere apertamente di come sta cambiando la sua popolazione, degli squilibri che la caratterizzano, non foss’altro per motivi etici. Il filosofo americano John Rawls, uno dei principali pensatori del XX secolo, nella sua teoria della giustizia, riservava non a caso un ruolo di primo piano alla giustizia intergenerazionale: “Ciascuna generazione deve non soltanto conservare le acquisizioni di cultura e civiltà, e mantenere intatte le istituzioni giuste già esistenti – scriveva Rawls – ma deve anche accantonare, in ciascun periodo di tempo, un ammontare opportuno di capitale reale. Questo risparmio può assumere varie forme, dall’investimento netto in macchinari e altri mezzi di produzione all’investimento nell’apprendimento e nell’istruzione”. Proprio ai diritti delle “future generazioni” fa riferimento – una tra le poche al mondo – la Costituzione del Giappone. Cosa aspetta l’Italia a prendere nota e ad agire di conseguenza?

(*) Accademico dei Lincei, ex Presidente Istat

Aggiornato il 31 marzo 2021 alle ore 09:43