Gabriele Paparelli: “Se la gente sapesse, non insulterebbe mio padre”

“Se le persone sapessero che tragedia ha vissuto mio padre e le conseguenze ricadute sulla sua famiglia, forse eviterebbero di insultare la sua memoria magari per mettersi in mostra”. Per Gabriele Paparelli, figlio di quel signor Vincenzo, un meccanico con la passione dei motori oltre che quella per la Lazio, dal maledetto derby del 28 ottobre 1979 – quando lui aveva otto anni e il padre, 33enne, venne ucciso da un razzo sparato dalla Curva Sud “sede” anche degli ultrà violenti della Roma – la vita è stata scandita da una serie di disgrazie inframmezzate dallo sciacallaggio e dagli insulti, non solo dei “nipotini” di quegli stessi tifosi nel cui giro maturò il delitto, ma anche di tutti quelli che hanno creduto di potere utilizzare quella tragedia come scorciatoia per far parlare di sé. L’ultimo in ordine di tempo è un cronista radiofonico di Verona, che ha collaborato con la trasmissione “La Zanzara” e che adesso Paparelli junior ha citato in giudizio, sperando “che almeno colpire nel portafoglio possa rappresentare una qualche deterrenza”.

Gabriele, che all’epoca del fatto – come si è detto – aveva otto anni, ha avuto la vita cambiata da questo episodio: la Lazio, all’inizio, dette qualche aiuto economico, la Roma solo una lettera del presidente Dino Viola e poi nulla. Nemmeno un comunicato, per deprecare le scritte dei suoi tifosi – per non parlare degli striscioni allo stadio – apparse in tutta la città a intervalli regolari, generalmente prima di ogni derby con la Lazio. Invece per questo ragazzo, che ha trovato un impiego all’Ama e che ha dovuto interrompere gli studi dopo le medie inferiori, prendendosi un diploma in seguito con le scuole serali da studente lavoratore, la giustizia è rimasta sempre una parola “astratta”.

La madre, che oggi non c’è più, non poteva mantenergli gli studi e dovette andare a lavorare a 14 anni. Il fratello è morto giovane, in seguito a una malattia, così questo ragazzo si è trovato quasi da solo contro un mondo indifferente, fatto di bestie quasi altrettanto infami come la persona che sparò quel razzo. Il responsabile, un diciottenne di borgata con piccoli precedenti per furto, e classificato dai giornali dell’epoca come tossicodipendente, di nome Giovanni Fiorillo – che insieme ad altri due suoi complici introdusse i razzi allo stadio in Curva Sud – se la cavò con poco: sei anni e dieci mesi. Di razzo ne venne sparato anche un altro, che colpì in maniera non grave un altro tifoso laziale, al di fuori dello stadio Olimpico. Nonostante l’evidenza di una possibile imputazione per omicidio volontario con dolo eventuale, Fiorillo ottenne però una pena lieve. Come se uccidere un tifoso della Lazio allo stadio non fosse da considerare un reato. In compenso, non sfuggì alla nemesi del suo destino: morì anche lui come Paparelli, a 33 anni. Era il 24 marzo del 1994. Non si è mai saputo se per tumore o per overdose.

Da quel 28 ottobre 1979 gli sciacalli delle scritte e degli striscioni (“1, 10, 100, 1000 Paparelli”) cominciarono a moltiplicarsi e a condizionare la vita del giovane Gabriele che ora ci racconta la sua storia.

Secondo lei questo collaboratore de “La Zanzara”, che ha detto quelle cose su suo padre, voleva farsi solo pubblicità?

“Non posso leggere nella sua mente… ma se così fosse stato avrebbe scelto la maniera peggiore per mettersi in mostra… cosa significa infatti dire che mio padre non è un eroe e “non ha fatto niente per questo Paese” e che  ha solo “vinto la Champions della sfiga”? Le sembra una grande battuta?”.

Chiaramente no… ma immagino non sia stato il solo episodio in tutti questi anni.

“Milioni di episodi. Da 42 anni a questa parte c’è stato sempre qualcuno, che ha pensato di avere il diritto di infangare la memoria di mio padre per futili motivi, magari come quello di mettersi in mostra”.

Solo ultrà della Roma o anche idioti la cui madre è sempre incinta?

“Magari fossero stati solo i tifosi violenti della Roma. Fino all’inizio degli anni Novanta erano di certo prevalentemente loro. Poi hanno capito. A quel punto sono entrati in scena i mitomani e gli esibizionisti. C’è stato un po’ di tutto, tanto che a questo signore ho deciso di citarlo in giudizio civile. L’avvocato dice che l’unica via è colpirli nel portafoglio, perché imparino a comportarsi civilmente e a rispettare i morti, specie quelli deceduti in maniera violenta, lasciando una famiglia pressoché sul lastrico”.

Per lei andò così?

“All’epoca non andava di moda aiutare le vittime della criminalità comune, all’inizio la società sportiva Lazio ci fu concretamente vicina, poi più nulla. La Roma non si è fatta mai viva se non con una lettera di scuse scritta anni dopo grazie alla buona volontà del presidente Dino Viola. E la nostra vita cambiò dal giorno alla notte”.

Che cosa intende?

“Io, ad esempio, fui costretto a interrompere gli studi perché mia madre non poteva mantenere tutta la famiglia senza più mio padre. Poi per fortuna ho trovato lavoro all’Ama, dove tuttora mi trovo”.

Questa è la prima volta che cita in giudizio qualcuno?

“Sì, la prima. Perché non ho mai voluto suscitare polemiche e ho voluto tenere quello che si chiama basso profilo. Però non sarà neppure l’ultima, perché se per fare capire a questi che cercano sulla memoria di mio padre il proprio quarto d’ora di celebrità, ci sarà bisogno delle carte bollate, vorrà dire che insieme al mio avvocato seguiremo questa strada. Purché alla fine si lasci in pace me e la mia nuova famiglia. Visto che quella in cui sono nato non c’è più, ed è stata tutta più o meno direttamente distrutta da questa disgrazia e dalla infamità dei comportamenti di tanta gente, che non ha avuto alcuna pietà”.

Aggiornato il 29 marzo 2021 alle ore 10:28