Italo Toni e Graziella De Palo: due giornalisti scomparsi nel nulla

Il 2 settembre del 1980 due giornalisti italiani, Italo Toni di cinquant’anni e Graziella De Palo di soli ventiquattro, scompaiono nel nulla a Beirut, in Libano. Italo Toni è un giornalista professionista che ama le inchieste. Da Sassoferrato, vicino ad Ancona, si trasferisce a Roma, dove collabora con numerosi periodici politicamente impegnati, quali “L’Avanti”, “Il quotidiano dei lavoratori” e “L’astrolabio”. Nel 1968 pubblica su “Paris Match” un articolo sui campi di addestramento della guerriglia palestinese. Graziella De Palo è romana e al momento della scomparsa era ancora studentessa universitaria iscritta alla facoltà di Lettere. Anche Graziella ha la passione per il giornalismo e, benché giovanissima, collabora con l’agenzia di stampa “Notizie radicali” e pubblica su “Paese Sera” i suoi articoli più importanti di politica internazionale. Italo e Graziella sono alla ricerca dello scoop che li lanci nel mondo del giornalismo. Per questo affrontano anche tematiche pericolose: Graziella si era occupata di traffico d’armi e di riciclaggio di denaro sporco, Italo seguiva invece le tematiche legate ai movimenti di liberazione.

Forse pensano di avere qualcosa di grosso fra le mani. E, infatti, prendono accordi con Nemer Hammad, il responsabile dell’ufficio romano dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), per organizzare un viaggio in Libano, Paese all’epoca devastato dalla guerra civile e diviso in zone militarmente occupate dalle milizie. Il 22 agosto arrivano a Damasco e da lì proseguono per Beirut, probabilmente attraversando il confine in un punto sorvegliato dalle forze siriano-palestinesi, non essendo in possesso del visto libanese. A Beirut alloggiano all’hotel Triumph, situato nella zona ovest della città controllata dai palestinesi. Il Triumph è l’albergo in cui l’Olp spesso sistemava i suoi ospiti. Probabilmente vengono a conoscenza di qualcosa di importante, ma che comporta anche gravi rischi. Per questo si recano all’ambasciata italiana avvertendo che devono recarsi fuori Beirut per un servizio giornalistico e che, se non dovessero ripresentarsi entro tre giorni, sarà bene cercarli. Il 2 settembre escono dall’albergo a bordo di una jeep del Fronte democratico popolare per la liberazione della Palestina per recarsi al castello di Beaufort, che si trova proprio sulla linea di fuoco. In albergo lasciano i bagagli personali. Da quel momento si perdono le loro tracce.

In seguito alle denunce di scomparsa presentate dalle famiglie, iniziano le indagini volte a ricostruire i movimenti dei due giornalisti. Della vicenda si interessano anche il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, alti prelati e numerosi parlamentari. Anche i genitori di Graziella De Palo si impegnano in una assidua investigazione e si recano in Siria e in Libano raccogliendo dati e testimonianze. Il primo fatto di rilievo avviene il 6 ottobre. Due italiani, Edera Corrà e Rolando Lattanzi, arrivati a Beirut da Roma, vengono informati da un funzionario della polizia libanese, in passato conosciuto dallo stesso Lattanzi, che nella camera mortuaria dell’ospedale americano vi sono i cadaveri di quattro italiani, tre uomini e una donna. L’ambasciatore italiano, Stefano D’Andrea, recatosi all’ospedale, smentisce però la notizia. Il funzionario libanese riferisce allora che i cadaveri sono stati occultati e consiglia di non occuparsi più della vicenda che è diventata pericolosa. Un esponente dell’Olp aggiunge che i corpi sono stati fatti sparire dallo stesso ambasciatore. Il ministro degli Esteri, Emilio Colombo, pur rilevando l’assoluta infondatezza della notizia, sporge doverosamente denuncia alla Procura della Repubblica di Roma. All’accusa anche l’ambasciatore risponde con una denuncia.

Il secondo fatto di rilievo avviene a dicembre. Elio Ciolini, detenuto in Svizzera per truffa e supertestimone (di dubbia affidabilità) in molte inchieste, fra cui quella della strage alla stazione di Bologna, afferma che i due giornalisti erano stati rinchiusi in un campo dell’OLP nel sud del Libano, poiché nel corso di una intervista avevano casualmente riconosciuto un uomo politico e un noto terrorista italiano. I due sarebbero poi stati soppressi. La testimonianza di Ciolini non venne però ritenuta fondata. Le indagini si scontrano in un muro di gomma. L’Olp non fornisce notizie utili: malgrado le promesse, anche scritte, del rappresentante a Roma Nemer Hammad, l’Autorità giudiziaria non riesce ad ascoltare il capo dei servizi segreti dell’organizzazione, neppure mentre si trova di passaggio a Roma. Non va meglio neppure con le autorità libanesi e siriane, probabilmente per la loro contiguità di interessi con i palestinesi. Lo scenario viene utilizzato anche a fini propagandistici. Yasser Arafat afferma che i giornalisti sono stati catturati dai cristiano-falangisti mentre scattavano fotografie nel settore cristiano di Beirut. La tesi della responsabilità dei falangisti viene sostenuta anche dal generale Giuseppe Santovito, direttore del Sismi (Servizio informazioni e sicurezza militare) e accreditata dal presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani. Il colonnello Stefano Giovannone, capocentro del Sismi a Beirut, entra in possesso dei messaggi intercorrenti fra l’ambasciata e il ministero degli Esteri tramite un appuntato dei carabinieri addetto alla codificazione e decodificazione. Prendendo le mosse da voci riguardanti la possibile liberazione dei giornalisti, o almeno della De Palo, all’ambasciatore sarebbe stato intimato di sospendere ogni attività d’indagine per non turbare il loro rilascio.

A questo punto, si deve aprire una breve parentesi: il colonnello Giovannone era persona molto autorevole nei rapporti che hanno a che fare con quanto si muove in Medio Oriente. Proprio Giovannone era stato infatti citato da Aldo Moro in una lettera drammatica fatta pervenire durante il suo rapimento. Le Brigate Rosse avevano chiesto uno scambio con terroristi detenuti e il presidente della Democrazia Cristiana aveva ricordato che “non sarebbe del resto la prima volta che avviene uno scambio, come il colonnello Giovannone ricorderà”. Il riferimento era ai palestinesi e all’attentato all’aeroporto di Fiumicino, quando Giovannone ebbe l’incarico di evitare che l’Italia fosse nuovamente coinvolta da attacchi terroristici. Dagli atti giudiziari emerge che proprio nel periodo di sospensione delle indagini, il direttore del Sismi generale Giuseppe Santovito si era incontrato con Arafat a Beirut e che proprio in tale incontro Arafat avrebbe detto che, qualora i due non fossero più stati vivi, era opportuno “stendere un velo” sulla vicenda.

A questo punto, si inseriscono le dichiarazioni di Lya Rosa, una militante palestinese ritenuta attendibile, che dice di parlare mossa da un sentimento di pietà. Afferma la Lya che i giornalisti, presi dai palestinesi, sarebbero stati processati e quindi “giustiziati” poco dopo il sequestro. Secondo Lya Rosa, al commando palestinese, che sarebbe anche stato l’autore del sequestro, era giunta la segnalazione che i due giornalisti italiani erano delle spie al servizio di Israele. La versione dei fatti coincide sostanzialmente con quella contenuta nella nota in data 15 novembre1983 indirizzata dall’ambasciatore D’Andrea al direttore generale presso il ministero degli Esteri, Sergio Berlinguer. Nella nota l’ambasciatore riferisce di un colloquio riservato e confidenziale avuto a Parigi con il capo della Suretè Nationale in Libano, Faruk Abillamah, il quale avrebbe affermato che i due erano stati uccisi “subito o quasi” dal gruppo palestinese facente capo a Jorge Habbash. Le voci secondo le quali la donna era stata risparmiata erano state diffuse ad arte. Sulla base delle informazioni e delle testimonianze raccolte, il 4 febbraio 1985 il sostituto procuratore della Repubblica, Giancarlo Armati, chiese il rinvio a giudizio, previa emissione di mandato di cattura, per Jorge Habbash per avere privato Italo Toni e Graziella De Palo della libertà personale e averne cagionato la morte. Chiese altresì il rinvio a giudizio per Stefano Giovannone per il reato di favoreggiamento in quanto si sarebbe adoperato per “coprire le responsabilità palestinesi”. Dichiarò, invece, non doversi procedere contro Giuseppe Santovito dal momento che i reati a lui ascritti erano estinti a causa della intervenuta morte del reo. L’anno successivo il giudice istruttore, Renato Squillante, dichiarò non doversi procedere nei confronti degli imputati. Jorge Habbash fu prosciolto per insufficienza di prove.

(*) Foto tratta da articolo21.org

Aggiornato il 23 novembre 2020 alle ore 11:37