The obtuse-working, l’utopia dello smart

mercoledì 21 ottobre 2020


L’opposto di smart (working)? Obtuse-working, inteso proprio nel suo significato latino di “ottuso”, termine degno e appropriato per la burocrazia italiana, tombarola di nuove idee e di cimenti. La Pubblica amministrazione odia la modernità e ama tenere artificialmente in vita l’archeologia linguistica amministrativa dell’Ottocento e il suo vocabolario desueto. Da una rapa non si cava sangue, così come non si può estrarre intelligenza da un dinosauro burocratico decerebrato. Lo Stato-amministrazione è un immenso ufficio per la complicazione degli affari semplici, e agisce come una straordinaria fucina di impieghi improduttivi e garantiti. Nel suo storico e invincibile litotritore, anche le innovazioni formidabili come la digitalizzazione integrale dei processi di lavoro, che consente lo smart working (o lavoro a distanza), diventa un formidabile paravento dei nullafacenti e nulla producenti. In altri termini, per i soli impiegati pubblici dallo stipendio garantito, lo smart working rappresenta un fantastico sistema di mimesi e imboscamento.

La ragione di fondo ha una spiegazione semplicissima. A oggi, grazie alla pandemia, moltissime aziende nel mondo hanno scoperto che ricorrendo al lavoro a distanza si producono notevoli risparmi sistemici e, pertanto, non meno del 30 per cento delle future attività aziendali sarà svolto stabilmente in remoto. Per l’azienda Pubblica amministrazione, invece, vale esattamente il contrario a giudizio dei cittadini-utenti e delle aziende private, in quanto l’irraggiungibilità degli addetti ai lavori rallenta a dismisura le prestazioni richieste. E non si tratta di narrare una favola metropolitana o di diffamare il buon nome di qualcuno. Il “lavoro a distanza” non è cosa che si realizza con un tocco di bacchetta magica, semplicemente dotando il lavoratore pubblico di un buon computer e di una connessione rapida. Si tratta, infatti, di creare tutto intorno a lui un innovativo involucro operativo (un “super-cloud”, in pratica), una sorta di nuovo mondo immerso in un ambiente completamente rivoluzionato nella catena di comando e nei metodi di lavoro. In altri termini, nella Pubblica amministrazione deve essere preliminarmente introdotto un alto livello di valutazione delle performance, derivante da una capacità analitica sostanziale di programmazione per obiettivi/risultati, supportato da indicatori molto sofisticati, staticamente testati e particolarmente affidabili per la valutazione delle prestazioni individuali e gruppali (tipo cluster), in cui afferiscono vari profili, conoscenze settoriali ed esperienze di vario ordine e grado, per la produzione di beni amministrativi di una certa complessità.

La posta in gioco deve essere chiara: la nuova organizzazione, che ponga a sistema il lavoro amministrativo operato in remoto, presuppone e fa obbligo assoluto al nuovo tipo di decisore di garantire l’ottimizzazione di tutti i processi di lavoro, connessi a una determinata produzione e ai suoi singoli prodotti, eliminando ab initio qualsiasi ridondanza, duplicazione, operazione intermedia non necessaria, e così via. Ovvero, si deve sapere il “perché si fa e come lo si fa”. Questo significa dare priorità assoluta ai beni amministrativi richiesti direttamente dai cittadini e porre fine a ogni rendita parassitaria, all’interno di una Pubblica amministrazione che oggi si basa per la gran parte su attività di auto-amministrazione, in cui si producono milioni di tonnellate di carta inutile (e/o di superflua occupazione di memorie digitali).

Lavoro “smart” implica, innanzitutto, essenzialità. Le inutili perdite di tempo sono bandite come il veleno a tavola. Questo significa, di conseguenza, attuare una drastica riorganizzazione del lavoro e la revisione in profondità degli organici esistenti, distinti oggi per qualifiche del tutto obsolete rispetto a una amministrazione digitale. Potrebbe accadere (accadrà con assoluta certezza) di dover riqualificare milioni di impiegati pubblici e, laddove risulti impossibile la loro riconversione, procedere con drastici alleggerimenti delle attuali piante organiche. Lo scenario che meglio approssima tale situazione è il digital-banking che, avendo trasferito al cliente digitale le operazioni dell’ex sportello fisico, ha ottenuto i vantaggi delle major americane (le così dette Gafa: Google, Amazon, Facebook, Apple), che avevano fatto da apripista nello sfruttare gli immensi giacimenti di big-data in loro possesso, depredando i giacimenti digitali di profili e dati dei loro utenti.

Tuttavia, anche se avessimo già a disposizione quell’immenso network “Omega” di milioni di postazioni di lavoro (una per ciascun nodo della rete di pubblici impiegati) e un modello avanzato di programmazione per risultati, singoli e/o di gruppo di lavoro, mancherebbe al tutto qualcosa di straordinariamente importante, senza il quale nessun modello di smart working nella Pubblica amministrazione potrebbe stare in piedi.

A monte di tutto, infatti ci deve essere, in via prioritaria, la realizzazione di una gigantesca giara magica digitale, ovvero un immenso warehouse o “serbatoio” in cui confluiscano tutti i rapporti pregressi di ogni singolo cittadino, e da lui intrattenuti fin dalla sua nascita, con la Pubblica amministrazione nel suo complesso. Il che implica, tra parentesi, un colossale sforzo di digitalizzazione degli atti che si trovano oggi esclusivamente in forma cartacea. Attività, quest’ultima, che da sola assorbirebbe decine di miliardi del Recovery Fund. Sarebbe la giara a fare da ponte tra le richieste della cittadinanza per prestazioni burocratiche e il network Omega dei pubblici impiegati digitali.

Le comunicazioni di interscambio, grazie alla pec e alla firma digitale (che ciascun cittadino è tenuto ad avere), garantiscono la massima tracciabilità e trasparenza possibili, eliminando contestualmente una miriade davvero sterminata di intermediazioni parassitarie. Un mondo vecchio e corrotto morirebbe, sostituito da un altro giovane, possentemente liberale e democratico. Non lo si vuole? Allora, lo si dica chiaramente e ci si prepari a pagarne tutti i costi politici futuri, condannando così il nostro debito pubblico all’insolvibilità.


di Maurizio Guaitoli