Una gonna per tutti

È di qualche giorno fa la polemica sorta da un provvedimento censorio sul dress code scolastico del Liceo Socrate di Roma, che vieterebbe alle studentesse di indossare le minigonne in quanto “senza banchi ai prof cade l’occhio”. Testualmente. Ovviamente le rappresentanti scolastiche del neonato collettivo “Ribalta femminista” non hanno perso tempo nel replicare immediatamente con un cartello affisso fuori dalla classe, sul quale si poteva leggere: “Non è colpa nostra se cade l’occhio”, al quale ha fatto seguito un post sui social: “I nostri corpi non possono essere oggettificati: domani siete tutte e tutti invitati a venire a scuola con una gonna, ci vestiamo come vogliamo”.

A parte il fatto che non essendo in Scozia, e dunque autorizzati i maschi a portare il tradizionale kilt, è l’invito proprio a questi ultimi ad indossare la gonna che mi lascia perplesso, ne prendiamo atto, ma mi si consenta di dire alcune cose, certamente non da bacchettone che non sono mai stato né mai sarò, anzi da inveterato goliarda che ha collezionato più note ed espulsioni di classe, al liceo, di quante possiate immaginare. Ed erano altri tempi, tra il 1977 ed il 1983 o giù di lì.

Lungi da me quindi ogni forma di moralismo che aborro, voglio però difendere il buon gusto nell’abbigliamento e non solo in quello scolastico. Ferme restando le continue – sin troppo frequenti – variazioni della moda, soprattutto quella dei più giovani, “ai miei tempi” nessuno avrebbe indossato fieramente jeans strappati – costosissimi – in quanto segno anche di “benessere economico”, era il portare capi, non solo firmati (cosa per esempio che io evito per una mia forma di anarchia personale e di individualismo congenito), ma soprattutto nuovi, integri, puliti e ordinati. Al mio liceo, scientifico, parificato dei “poveri” (in quanto bersaglio delle nostre attività goliardiche, non certo per mancanza di fondi) Padri Somaschi di Rapallo, in una classe ad alto tasso femminile – e con molte ragazze più graziose della media – nessuna, dico nessuna, neanche la più spregiudicata tra loro, ha mai mancato di decoro presentandosi in aula. Eppure potevano permetterselo, con la bellezza e la freschezza della gioventù. Eppure vestivano decorosamente, graziosamente, anche con eleganza e un niente di trucco, e non per questo erano meno belle. Non avevano bisogno della minigonna, bastava il movimento dei loro fianchi. Bastava lo sguardo. E portavano i jeans o le gonne qualche volta.

La seduzione, lo impareranno crescendo le giovani del Socrate, forse meno quelle del loro collettivo femminista, non avviene con la minigonna né con i tacchi ma con il comportamento, e ai nostri tempi, ai “miei tempi”, se al professore (essere umano maschio adulto ancorché sacerdote, a volte, ma non sempre) anche fosse “caduto l’occhio” avrebbe badato a non farlo rimbalzare e infine, lo ricordo per i puritani ligi al più vieto luteranesimo, apprezzare la bellezza, in ogni caso e dunque in questo riguardante la giovinezza femminile, non equivale a uno stupro. Insomma, se al professore di greco – faccio per dire – gli “cade l’occhio”, pazienza, l’importante è che non allunghi la mano.

Tuttavia un “codice dell’abbigliamento” trovo sia fondamentale oggi, a scuola, ancor più di allora. Per noi la “ribellione” era vestire Mod con il bavero della giacca decorato dalle spillette di latta colorate, indossare jeans, giubbotti, oppure virare al Dark o in qualche caso al Metal. Era portare i capelli lunghi e le camicie alla Jim Morrison con i pantaloni di pelle nera. Ma con classe, perché dietro a tutto questo c’erano le letture di Charles Baudelaire, di Arthur Rimbaud, di Oscar Wilde e di Edgar Allan Poe, e non soltanto l’ignoranza attuale spinta dalle influencer, quindi, è triste constatarlo, ciò che oggi è del tutto assente è il buon gusto nell’abbigliamento, e non soltanto in quello dei giovani, basti guardare come si riducono certi trentenni, incapaci di capire quando sia il caso di mettere la camicia dentro ai calzoni.

Il vestiario è un fatto personale, sì è vero, ma che si ripercuote necessariamente sugli altri e comunica chi siamo in maniera immediata ancorché sottile, ragion per cui ognuno di noi giustamente sceglie il proprio, ma non per questo è lecito il “mi vesto come voglio” dichiarato dalle liceali del Socrate, perché il decoro non è e non può essere soggettivo, men che meno a scuola. Ma del resto, in una società troppo spesso assente anche nelle proprie componenti essenziali di famiglia e di istituzioni docenti, priva di qualsiasi estetica, d’eleganza, di ricerca del bello e della bellezza – troppo se ne parla a sproposito soprattutto da parte di chi dovrebbe guardarsi allo specchio e tacere – questo mio scrivere sarà preso come il solito attacco reazionario, retrò, patriarcale, sessista e quant’altro. Non m’interessa punto, personalmente continuerò a indossare gli abiti che più si confanno al momento, al luogo e alla mia natura, ma sempre con la distinzione possibile dell’essere “unico e mai uguale a tutti gli altri” come vorrebbero oggi in un’uniformità travestita da libertà. Lo imparino, se ci riescono, le studentesse del Socrate, femministe o meno, imparino quale possa essere la vera libertà, anche nel loro abbigliamento.

Aggiornato il 23 settembre 2020 alle ore 12:07