Walter Tobagi: un giornalista assassinato quarant’anni fa, il 28 maggio, da un gruppo di terroristi rossi della Brigata chiamata XXVIII Marzo. Amava un mestiere che resta duro, artigianale nonostante l’applicazione delle tecnologie più moderne. Negli anni che seguirono il Sessantotto l’Italia e in particolare Milano vissero un lungo clima di tensioni e scontri di piazza. Sono passati alla storia sotto il nome di “Anni di piombo”. Per il giovane cronista che aveva messo a nudo, in tanti articoli, le ragioni del terrorismo politico e sindacale il dovere di raccontare e informare era un compito che non ammetteva paure. Tobagi andava nelle piazze, nei quartieri, nelle fabbriche per rendersi conto di persona di quanto stava accadendo nella società italiana. Si era messo in evidenza con due libri che ancora oggi fanno testo per comprendere il percorso dei sindacati di quel periodo.

Il primo è Il sindacato riformista e il secondo La rivoluzione impossibile a cui seguì postumo Che cosa contano i sindacati. Nel giorno dell’anniversario della sua morte (quel mattino di un maggio piovoso mentre usciva di casa con l’ombrello a prendere la propria auto per recarsi alla redazione di via Solferino) Ferruccio de Bortoli scrive che Tobagi “fu ucciso perché svelò la fragilità dei terroristi”. In realtà c’è anche di più. Walter Tobagi era stato l’animatore dell’Associazione lombarda dei giornalisti che nel Congresso della stampa di Pescara si presentò in contrapposizione con lo schieramento maggioritario dei “giornalisti democratici”. Ebbe l’amara sorpresa di essere messo in un angolo, isolato soltanto perché voleva riformare la Federazione della stampa. Proponeva, come ricorda il suo amico Maurizio Andriolo, un giornalismo forte, libero, pluralistico, capace di svolgere una funzione critica della società. Non un sindacato ideologico o condizionato dai partiti.

Pur nella sua breve esistenza ha saputo lasciare un segno indelebile. Già allora Tobagi poneva il problema delle concentrazioni nel mondo dell’editoria, dell’uso delle tecnologie, della riforma dell’accesso alla professione e il pericolo per la stampa italiana di ritrovarsi con una vasta disoccupazione se non si fossero rimodernate le aziende editoriali. “È caduto – aggiunge De Bortoli nel volume ricordo curato da Giangiacomo Schiavi – sulla frontiera della lotta al terrorismo che ha insanguinato quegli anni. La violenza politica sembrava un male inestirpabile. Dilagante. Anche grazie ad una diffusa zona grigia di accondiscendenza borghese alla protesta con le armi”. Quarant’anni sono tanti. Ma i dati sono lì a ricordare i fatti. L’offensiva dei terroristi rossi contro i giornalisti può essere fatta risalire alla “gambizzazione” di Indro Montanelli, allora direttore del Giornale.

Tre brigatisti gli spararono il 2 giugno 1977 alle gambe presso i giardini di piazza Cavour a Milano. Il giorno dopo fu la volta del direttore del Tg1 Emilio Rossi, costretto da allora ad appoggiarsi ad un bastone. Vennero feriti successivamente anche Vittorio Bruno del Secolo XIX, Antonio Granzotto del Gazzettino di Venezia e Nino Ferrero dell’Unità. A novembre l’omicidio del vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno, quando il 16 novembre esponenti delle Brigate rosse gli spararono quattro colpi alla testa nell’androne di casa. Ricoverato all’ospedale Le Molinette di Torino morì dopo una lunga agonia. Pochi giorni prima dell’agguato a Tobagi esponenti della Brigata XXVII marzo penetrarono nella casa del giornalista di Repubblica Guido Passalacqua e gli sparano due colpi alle gambe.

Aggiornato il 27 maggio 2020 alle ore 12:28