Sprazzi di memoria di uno scampato ad un’epidemia del secolo scorso

giovedì 21 maggio 2020


Ero al mio Paese d’origine (Tolfa-Roma), sfollato dalla vicina Civitavecchia già pressoché distrutta dai bombardamenti, dove avevo frequentato, fino al 14 maggio 1943, il locale Liceo. Io non potevo considerarmi uno “sfollato” anche se la guerra ed i bombardamenti mi avevano costretto ad abbandonare la mia Città natale Civitavecchia e la mia attività scolastica. Ero infatti a casa mia, con la mia Famiglia, residente sempre a Tolfa. E tutta via ci toccò di vivere da “sfollati” nel nostro stesso Paese. I tedeschi che dall’8 settembre del ‘43 occupavano il territorio, un bel giorno si erano presentati a casa nostra e ci avevano scacciato su due piedi. Trovammo una sistemazione, non delle peggiori, a casa del Marchese Sacchetti. Il Paese allora era assai meno esteso di oggi, mancando ancora diversi dei fabbricati poi costruiti dopo la guerra. Gli abitanti di Tolfa erano allora, come oggi e, pare, come sempre, circa 5mila. Ad essi si erano aggiunti, sistemati nei magazzini e cantine, nei modi più inverosimili, più o meno altrettanti “sfollati” di Civitavecchia oltre un numero incerto di militari rimasti sbandati dopo l’8 settembre, e di persone senza dimora fissa. Le condizioni igieniche, inutile dirlo, erano spaventose. Una metà almeno degli abitanti non aveva né acqua né servizi igienici.

Il tifo scoppiò dopo Natale. I tedeschi che avevano iniziato i lavori di sistemazione e fortificazione di una considerevole forza nella zona, fecero subito una vasta opera di vaccinazione. Io feci due delle tre iniezioni necessarie. Poi, proprio il giorno in cui gli Alleati sbarcarono ad Anzio mi colpì la febbre. Improvvisa e subito forte. Avevo preso appuntamento con il mio amico Prospero Morra, il compianto quasi coetaneo, futuro collega. Volevamo andare al Mignone, il torrente che segna il confine tra le province di Roma e quelle di Viterbo. Nella zona, poco distante di lì, c’era stato un piccolo concentramento di prigionieri di guerra Alleati (sudafricani, australiani, inglesi, qualche americano). L’8 settembre si erano “dati alla macchia” aiutati dalla popolazione di Civitella Cesi, subito al di là del Mignone. L’aiuto che la popolazione locale di Civitella, di Tolfa, di tutta la zona diede ai fuggitivi fu generoso ed efficace, anche se, certamente, limitato all’essenziale. Avevamo raccattato qualcosa di commestibile, delle sigarette, qualche indumento, più che altro in segno della nostra amicizia e solidarietà.

Durante la notte mi assalì improvvisa una forte febbre. Poco dopo l’alba già un po’ intontito dal male, sentii che Prospero Morra mi chiamava sotto la finestra. Mia Sorella si affacciò per dirgli che ero caduto ammalato. Non ricordo molte altre cose. Se non la lettiga del servizio della Croce rossa di Tolfa: una barella coperta e spinta a mano. Mi portarono all’Ospedale di Civitavecchia trasferitosi in Tolfa, dove era stata costruita, diversi anni prima, la sede di un Ospedale Civico che non aveva mai funzionato non essendovi i soldi per gestirlo. Sito in posizione panoramica, per raggiungerlo con quella “lettiga” dovemmo fare un lungo giro. Ricordo che nel buio di quella sorta di scatola sentivo il passo cadenzato di quattro “militi” della Cri che mi portarono, spingendo quell’arnese, in ospedale. Null’altro. Poco dopo mi raggiunse in ospedale mia madre, che aveva già sofferto il tifo da bambina. Poco altro ricordo. La bocca mi si riempì di piccole pustole, da cui ogni tanto usciva sangue. Una notte (così mi pare) un’emorragia terribile dal naso giunse ad inzupparmi di sangue una coperta che ci eravamo portati da casa (tutto era arrangiato). Due medici si davano da fare attorno a me. Fu il culmine della malattia. La febbre aveva raggiunto, a tratti, i 41 gradi.

Ricordo che una mattina il personale ospedaliero si mise ad aprire tutte le finestre e le porte interne a vetri. Vicino alle mura dell’Ospedale, i tedeschi avevano piazzato una batteria di cannoni di grosso calibro (205-240 mm) ed avevano avvertito che avrebbero fatto dei tiri (quei grossi cannoni potevano raggiungere con la loro gittata anche le spiagge di Civitavecchia). Boati tremendi scossero tutto. Le finestre erano state aperte per evitare che i vetri andassero in frantumi. Dopo una permanenza in corsia, ci sistemarono, mia madre e me, in una stanza. Mia madre se la cavò meglio di me. Forse per aver già sofferto il male da piccola. Fui ammalato 45 giorni. Non ricordo nulla del “viaggio” di ritorno a casa. Dopo qualche giorno, riuscii a trovare uno specchio per guardarmi. Per poco non svenni dal terrore. Ero ridotto più o meno come gli scampati ai campi di sterminio. Lo scheletro, si intuiva sotto la pelle, ero tutto ossa e pelle. Tuttavia, feci assai presto a riprendermi. La fame fu il segno del ritorno alla normalità. Dopo una quindicina di giorni ero in grado di cavarmela in giro per il Paese. E, poi, ricominciai le mie escursioni notturne in campagna. A maggio ero già in piena forma. L’epidemia era scomparsa. Aveva infestato un’area assai ristretta: quella di Tolfa e ben poco quella della vicina Allumiere.

Erano stati registrati più di ottocento casi (su una popolazione di 10mila abitanti, tra residenti e “sfollati”). Ma molti avevano preferito rimanere malati clandestini per paura di essere portati a Roma, negli ospedali della Capitale. Scelta non priva di ottime ragioni per le condizioni affettive dei luoghi di cura romani sotto l’occupazione tedesca e per il pericolo di chi sa quale trasferimento. C’erano poi oltre ai “malati clandestini”, anche non pochi “clandestini malati”, militari sbandati, ricercati dai tedeschi e fascisti o timorosi di esserlo. Il numero dei morti per la malattia infettiva fu, anche considerando la mancanza di cure adeguate, basso: meno di una decina di casi. Non vi furono “ricadute” economico-sociali dell’epidemia e delle misure (scarse) per combatterla. Tutto allora era già in subbuglio e non c’erano ulteriori “ricadute” oltre quelle della guerra e dell’occupazione nemica. Dell’epidemia rimase, invece, a lungo traccia sulle porte delle case in cui si erano verificati dei malati, porte su cui i tedeschi avevano fatto scrivere con una vernice arancione delle grosse lettere “T.Y.”.

Sulle vie di accesso a Tolfa delle scritte in tedesco annunciavano che la zona era infestata dal tifo Tolfa ist typhusgebiet”. Accanto ad essa altre avvertenze ai militari occupanti Achtung! Banditen!”. Nessuno, a lungo, si fece carico di cancellarle, benché avessero qualcosa di sinistro. Poi alcuni antiquari di Roma si accorsero che le porte delle case di Tolfa, scritte a parte, avevano un valore artistico e commerciale. Comprarono le porte, le fecero sostituire da brutte versioni moderne. Non so se ai loro clienti le rifilassero con quelle lettere, memoria di un ulteriore disgrazia che aveva colpito il Paese da cui provenivano.

Nota

Più volte, nel corso di più di mezzo secolo, mi è balenata l’idea di effettuare una ricerca dei dati statistici e, se possibile, di ogni altra notizia certa relativi all’epidemia di tifo sviluppatasi in Tolfa nei primi mesi del 1944. Sempre ho finito per rimandare questo lavoro, dal quale avrei potuto ricavare notizie di maggior precisioni di quante correnti nella memoria dei sopravvissuti. Le “voci” correnti circa tali dati non devono essere, in verità, troppo diverse da quelle reali e documentabili. Semmai una loro sistemazione utile ai fini di qualificazioni statistiche avrebbe potuto (e potrebbe tuttavia) essere di qualche utilità storica. Quanto è da me e da quanti altri nel Paese di Tolfa o altrove conosciuto possono avere un qualche interesse è già sufficiente per alcune valutazioni della situazione in cui vennero a svilupparsi l’epidemia ed a determinarne durata e danni alle persone e mortalità. Ho scritto più sopra che i casi del male in vario modo conosciuto ed accertato furono più di ottocento. Circa il 10 per cento della popolazione residente e rifugiata nella zona ne fu colpita. La mortalità 8-10 casi fu, sembra, del 10 per cento dei contagiati. Non abbiamo notizie delle fasce di età di contagiati e di vittime, del resto poco ben definibile pur in un complesso così ristretto. La variabilità del reale numero dei contagiati è ascrivibile al fatto che ad un certo punto incominciò ad effettuarsi il ricovero a Roma, negli Ospedali malridotti della Capitale dei malati che, potendolo si sottrassero a quella che era temuta più della malattia: qualcosa di simile alla deportazione.

I tedeschi provvidero subito con l’organizzazione sanitaria militare a mettere in atto una campagna di vaccinazione. Che però, prevedendo tre iniezioni a distanza di tempo, finiva con non essere efficace (fu il mio caso). Il numero però dei “semivaccinati”, quelli che non erano riusciti che a farsi fare una o due delle tre iniezioni, secondo alcuni medici era valso ad attenuare alquanto la violenza del morbo. Se così fosse sono sopravvissuto, forse, grazie al servizio sanitario della Wehrmacht. Pare, secondo voci di impossibile controllo, che l’epidemia abbia dapprima ritardato e poi fatto sì che vi si rinunziasse, alla creazione sul gruppo collinare di Tolfa-Allumiere di una sorta di campo fortificato tedesco in previsione di altri sbarchi dopo quello di Anzio. Impossibile, credo, accertare se ciò sia vero. Che abbia qualche elemento di verosimiglianza è però provato dall’esecuzione di lavori di protezione per notevoli quantità di automezzi di cui a lungo rimasero tracce ai margini delle vie tra Tolfa e Allumiere e l’interesse che i tedeschi poi ebbero subito a dimostrare per le numerose gallerie scavate nel secolo precedente per la ricerca e la produzione di miniere di allume e di altro. Al limite potrebbe dirsi che quell’epidemia salvò Tolfa dal divenire terra bruciata di una zona di resistenza al Nord di Roma. Le cure somministrate ai colpiti dal male a Tolfa furono estremamente esigue. La “penicillina”, il farmaco miracoloso, gli antibiotici, erano reperibili solo nelle zone liberate dagli Alleati.

Del resto, la cura del tifo era da anni ferma all’uso di farmaci antiquati. Per di più a Tolfa, era irreperibile il latte su cui avrebbe dovuto fondarsi la dieta dei colpiti dal male. Io debbo la mia salvezza a mia sorella Danira che con incredibile spirito di sacrificio si fece mendicante del latte presso contadini, pastori, pecorai e proprietari di capre e riuscì a non farlo mai mancare a me e mia Madre. Le conseguenze economico-sociali dell’epidemia nella zona di Tola difficilmente possono essere individuate e valutate separatamente da quelle della guerra in corso. Con tutto ciò e proprio per tutto ciò la limitata mortalità e la durata breve dell’epidemia può considerarsi miracolosa. Questo dissero i medici del luogo. Voglio cogliere l’occasione per mandare un pensiero alla memoria di quanti allora, militi della Croce rossa, infermieri dell’Ospedale e medici curarono me e mia madre con quell’abnegazione e quella fantasia che spesso si ritrovano tra chi è costretto a farsi carico della vita altrui senza il necessario dei mezzi e delle possibilità.

Dedica

Dedico queste mie memorie a mia sorella Danira che non conobbe limiti al suo impegno per non farci mancare il cibo necessario alla nostra sopravvivenza ed ai Medici, agli infermieri ed ai militi della Croce rossa che ebbero in qualche modo cura di me.

N.B.

Ci scusiamo per eventuali imperfezioni causate dalle contingenze del momento.


di Mauro Mellini