Regioni: una fede mal riposta

Le Regioni a statuto ordinario compiono oggi cinquant’anni ma hanno ben poco da festeggiare. La loro istituzione, genericamente rispettosa del dettato costituzionale, fu in realtà un “regalo” al Pci il quale, da troppo tempo escluso da ogni possibilità di governare qualcosa di rilevante, si sarebbe forse acquietato aggiudicandosi il controllo di quelle che infatti ancora oggi vengono definite “Regioni rosse”. Secondo la stessa logica, negli anni sessanta si era avviata una consistente politica di nazionalizzazione, stavolta come scambio col Psi, guidato da un segretario, Francesco De Martino, il quale sosteneva che, per lui, l’iniziativa privata sarebbe stata tollerabile solo per i negozi di barbiere. Dopo qualche decina di anni, da un lato le progressive privatizzazioni e dall’altro le proposte sempre più numerose di riportare la competenza sulla Sanità – il vero nocciolo duro delle Regioni - allo Stato, dimostrano che l’opposizione del Partito Liberale nei riguardi delle due vicende ricordate, era senza dubbio lungimirante.

Retorica senza sostanza

Il decentramento amministrativo ha buone ragioni di principio e si sarebbe potuto realizzare inducendo le Province, invece che eliminarle, a consorziarsi sulla base dell’identificazione di obiettivi e problemi comuni, su una concreta e più realistica base territoriale. Le Regioni cui si è data origine, al contrario, sono elefantiache e costose macchine buracratico-politiche costituite sulla base di territori disegnati, ridisegnati e corretti decine di volte dal 1861. Esse hanno spesso poca aderenza alla realtà delle interazioni, sociali ed economiche, fra aree appartenenti di diritto a Regioni diverse ma, di fatto, strettamente connesse pur dovendo sottostare a regimi legali e burocratici diversi. Ad ogni modo, le Regioni hanno bilanci nei quali la sanità e la propria stessa amministrazione assorbono il 60 per cento per cui la ricchezza di questa o quella Regione non dipende certo dalla spesa e dagli investimenti del rimanente 40%, che se ne va in mille rigagnoli fra i quali lo sviluppo economico assorbe meno del 10%. Senza tema di smentite, si può insomma affermare che lo sviluppo dei territori regionali è, come del resto appare ovvio, nelle mani delle popolazioni locali, della loro storia e della loro cultura e non in quelle di classi dirigenti locali con pochi poteri e molta, troppa attitudine alla retorica o ad altre finalità irrilevanti.

La prova dell’emergenza

Per un triste paradosso, l’epidemia attuale ha colpito più duramente proprio le tre Regioni che, da anni, vantano il primato in fatto di sanità: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna. Va da sé che non sussiste alcuna correlazione. Ma è significativo che, di fronte all’emergenza, le tre Regioni, assieme del resto a tutte le altre, invochino l’intervento dello Stato centrale come se l’eccellenza valesse solo per i periodi di normalità, sicuramente più agevoli da amministrare. Tutto ciò è, se si vuole, comprensibile, ma, nel contempo, le Regioni avocano a sé il diritto di stabilire strategie di contenimento epidemico del tutto autonome e, anzi, entrando continuamente in polemica con lo Stato. Così, ogni governatore si dota di un proprio gruppo di consulenti sanitari e decide linee di intervento diverse, talora contrapposte, che investono popolazioni le quali, di conseguenza, devono fra l’altro tenere ben presente i confini fra una Regione e l’altra per poter osservare scrupolosamente le varie ordinanze. Qui va precisato che la varietà delle strategie, nel mondo scientifico, non è di per sé un fatto negativo ma, anzi, molto positivo soprattutto di fronte a problemi nuovi. Ma le Regioni non sono laboratori di ricerca né le loro popolazioni cavie su cui fare esperimenti e, dunque, sarebbe nettamente preferibile una condotta omogenea e, appunto, centralizzata.

Una penosa rielaborazione dell’ovvio

Fra i cambiamenti che l’epidemia produrrà nei sistemi sociali ed economici uno è già in essere e, più che in un mutamento, consiste in un ritorno. Si tratta della riscoperta del ruolo dell’uomo, delle sue mani, delle sue conoscenze e del suo saper fare. Troppi commentatori, sociologi in testa, erano stati colti dall’ebbrezza dovuta alla sicuramente ampia diffusione dell’automazione e delle applicazioni dell’Intelligenza artificiale. Costoro segnalavano con sussiego che, in molti settori produttivi, la presenza umana si è ridotta a percentuali minuscole mentre il grosso delle lavorazioni avviene per mezzo di macchine automatiche capaci di autoregolarsi. Si dà però il caso che, a causa delle restrizioni in vigore, che riguardano gli uomini e non certo le macchine, l’economia entri in recessione. È ovvio che una fabbrica completamente affidata a robot sarebbe del tutto indifferente alla diffusione di virus biologici, ma questa è fantascienza. La realtà è ben diversa e vede sempre e comunque la competenza umana al centro di qualsiasi vicenda. Una competenza che dovrebbe essere intesa al plurale, ossia come un insieme di competenze di crescente varietà che si sommano e non si sostituiscono affatto a quelle esistenti, sia in ambito industriale sia, come si vede, in ambito medico, scientifico, delle comunicazioni, del controllo del territorio e della stessa vita quotidiana che, a causa dell’emergenza, ripropone la rilevanza vitale di attività di piccola e grande specializzazione.

Aggiornato il 06 aprile 2020 alle ore 14:06