La Corte d’Appello di Catania, tre giorni or sono, ha annullato il provvedimento, reso nel 2018, con il quale il Tribunale aveva disposto la confisca, per pericolosità sociale, di tutto il patrimonio (ammontante a circa 150 milioni di euro), afferente a Mario Ciancio Sanfilippo, editore notissimo, proprietario de La Sicilia di Catania, già presidente della Fieg (Federazione italiana editori giornali), titolare di altre partecipazioni in diverse testate nazionali. Una cosa va subito detta, a scanso di equivoci. Il procedimento di prevenzione – vale a dire quello a cui è stato sottoposto Mario Ciancio Sanfilippo e molti altri prima di lui – costituisce una assoluta follia giuridica, che non a caso esiste soltanto in Italia, Culla del diritto, tomba della giustizia, secondo il titolo di un libro edito diversi anni fa e dovuto all’acume di Corrado Pallenberg.

Infatti, questo tipo di procedimento mira ad accertare la pericolosità sociale della persona accusata, indipendentemente dal fatto che costui abbia o no commesso un reato. Per raggiungere questo scopo, appunto preventivo, i giudici si avvalgono di presunzioni, di allegazioni varie, di indizi. Tutti elementi che però non sono per nulla certi, ma derivanti da operazioni logiche improbabili e comunque spesso lontane dalla realtà: come è noto, la logica ci può dire molto sulla coerenza dei ragionamenti, ma ben poco sul loro portato di verità. Insomma, questo tipo di processo serve a sanzionare una persona non per ciò che ha fatto ma per ciò che potrebbe fare, in quanto riconosciuto pericoloso socialmente; e questa pericolosità la si fa derivare dalla contiguità con personaggi della malavita o delle associazioni mafiose.

A sua volta, questa contiguità viene il più delle volte ricostruita – manco a dirlo – sulla base di dichiarazioni di collaboratori di giustizia, le quali – come spesso accade – sono rese a distanza di anni o decenni dai fatti riesumati, sono prive di riscontri oggettivi, sono generiche o addirittura contraddittorie. Non solo. Si deve anche sapere come tutta l’impalcatura ideologica delle misure di prevenzione volte a sanzionare la pericolosità sociale trovi la propria radice storica nelle misure di polizia antibrigantaggio che dopo il 1861 lo Stato italiano fu nella necessità di assumere per far fronte a quel fenomeno sociale. Ed infatti le misure di prevenzione altro non sono che misure di polizia travestite per renderle socialmente accettabili: in Italia è noto come una delle principali vocazioni politiche consista nel cambiare il nome delle cose, lasciandole come sono, esattamente come sono. Il Gattopardo insegna!

Celebre e paradigmatico il caso del ministero dell’Agricoltura che, abolito da un referendum popolare, risorse dalle sue ceneri semplicemente cambiando nome in ministero delle Politiche Agricole. Allo stesso modo, le misure di polizia cambiano nome – divenendo misure di prevenzione, per diventare digeribili in un ordinamento che si dice proprio dello Stato di diritto – ma restano tali e quali. Tuttavia, per meglio mascherarle, si tolgono di mano a Questori e Prefetti e si consegnano alla competenza della Magistratura e così siamo tutti contenti! E se la magistratura godesse fono in fondo della sensibilità che ne dovrebbe segnare la coscienza in modo indelebile, avrebbe dovuto da tempo rifiutare questo ruolo di surroga del potere esecutivo, eccependo davanti alla Corte Costituzionale la illegittimità dell’intera massa delle disposizioni in tema di processo di prevenzione: cosa che evidentemente non è accaduta né è prevedibile accada. E così abbiamo i giudici che fanno, indossando la toga, il lavoro proprio di Questori e Prefetti, con buona pace del principio della divisione dei poteri: ma è meglio queste cose, per educazione istituzionale, tacerle, farle passare quasi sotto silenzio.

Tuttavia, devo riconoscere che il decreto con cui la Corte d’Appello di Catania ha annullato quello del Tribunale, restituendo a Mario Ciancio Sanfilippo ciò che – illegittimamente, ora possiamo dirlo – gli era stato sottratto, è scritto e argomentato molto bene, al punto che suggerisco di farlo studiare e meditare agli studenti di giurisprudenza allo scopo di far loro intendere cosa un Tribunale non debba mai fare e come invece i suoi errori possano e debbano essere corretti: ma anche questo non accadrà e gli studenti continueranno ad assopirsi su noiosissime e indecifrabili massime della Cassazione. La Corte, infatti, smonta una per una, senza neppure difficoltà particolari, ogni argomentazione con cui il Tribunale aveva dichiarato essere Mario Ciancio un pericolo sociale, cosa che risulta in se risibile solo a pensarla, per chi soltanto ne abbia una conoscenza superficiale.

Certo, egli è stato persona di grande rilievo in tutta la Sicilia per decenni, un imprenditore della carta stampata e delle televisioni di prima grandezza, dotato di grande carisma e di innegabili capacità e, come tale, ovviamente in contatto con esponenti politici, sindaci, presidenti di regioni. E allora? Forse che Gianni Agnelli o Carlo De Benedetti non siano stati la medesima cosa per decenni e che non abbiano assunto le medesime iniziative, intrattenuto i medesimi rapporti, ottenuto gli stessi “vantaggi” di Mario Ciancio Sanfilippo, ma su scala molto più estesa, quella nazionale e internazionale? Forse che Agnelli o De Benedetti son mai stati sottoposti ad un processo di prevenzione? Insomma, se Ciancio fosse pericoloso, questi due andrebbero considerati quasi criminali internazionali!

Per intendere la assurdità delle argomentazioni su cui si basava la decisione del Tribunale, basti considerare che indice significativo della contiguità di Ciancio con i gruppi mafiosi è stata valutata addirittura la linea editoriale de La Sicilia – il quotidiano di sua proprietà – giudicata troppo morbida nei confronti della mafia. Ebbene, è emerso che dal 1982 al 2003, sul quotidiano la parola “mafia” è stata stampata 32.630 volte in altrettante pagine (facendo i conti, circa 5 volte al giorno per 21 anni) e il nome di Nitto Santapaola (noto boss mafioso) 4.679 volte su altrettante pagine (facendo i conti, un giorno sì e uno no per 21 anni): e certo non per rendere note partecipazioni di matrimonio. Ammettiamo che tutto ciò appare molto ridicolo: che un Tribunale intenda sindacare la linea editoriale di un quotidiano rappresenta già un errore di concetto, una inammissibile interferenza nella libertà di manifestazione del pensiero, come non manca di rilevare puntualmente la Corte. Si aggiunga che queste assurdità erano ben visibili al principio di questa vicenda processuale, senza che occorressero anni di dibattito e di inutili spese. Che poi se ne faccia derivare una pericolosità sociale per contiguità con le associazioni mafiose sfocia nel surreale.

Aggiornato il 30 marzo 2020 alle ore 13:45