Di Achille Lauro è bene parlarne ora che la eco di Sanremo sta per esaurirsi e le pecore stanno pian piano smettendo di belare. Molti hanno fischiato Lauro perché non hanno compreso il messaggio, perché l’utente medio non è pronto a certi input dirompenti, quasi destabilizzanti.

In perfetto stile da popstar, Achille Lauro non ambiva a vincere “San Scemo” ma voleva semplicemente usare quel palco prima che il “canzonettificio” nazional-popolare lo fagocitasse rendendolo un nipotino dei Ricchi e poveri, una meteora come i Jalisse.

Lauro ha voluto dimostrare ai millennials che per fare spettacolo non è sufficiente fare il do di petto nel ritornello aprendo con sguardo sognante le braccia come Domenico Modugno. Quella è roba vecchia buona per i talent show, mentre la popstar cavalca il palco facendo discutere, creando scalpore, generando il caos.

E infatti Achille Lauro ha vinto perché ha centrato l’obiettivo: tra poco nessuno ricorderà chi ha vinto il Festival, nessuno ricorderà i Pinguini nucleari (o come capperi si chiamano), nessuno ricorderà i finti giovani che sculettavano sul palco fingendo di essere dei gioiosi pazzerelli anticonformisti col sorriso finto stampato sulla bocca. Tutti ricorderanno Lauro in calzamaglia o vestito da donna anche se forse non comprenderanno mai che si tratta di citazioni colte e non di travestimenti buoni per fare coming out (di cosa, poi).

Cosa hanno in comune i personaggi che Achille ha portato sul palco? Sono i mille volti delle persone libere che non hanno bisogno di rinchiudersi in uno stereotipo e che sono mutevoli proprio perché libere. Sono tutti personaggi che hanno sfidato il loro tempo fottendosene delle convenzioni perché erano avanti e lo sapevano. Si va dall’ascetismo di San Francesco che mostra la propria fragilità spogliandosi dei suoi vestiti (Lauro non è rimasto banalmente in mutande) sentendosi libero di farlo. Fino ad arrivare al carisma geniale di David Bowie che sfidava le convenzioni fregandosene dei benpensanti che lo consideravano ambiguo ma che dovevano comunque piegarsi al suo immenso talento. Si va dalla Marchesa Casati i cui eccessivi liberi costumi hanno sfidato un’epoca fregandosene delle consuetudini. Fino ad arrivare ad Elisabetta Prima – passata alla storia come donna vestita da uomo che se ne fregò delle tradizioni sessuali – la quale riuscì a diventare potentissima nonostante la società del suo tempo la considerasse sesso debole.

Sono tutti personaggi che sono accomunati da un unico filo conduttore, che poi è anche il titolo della canzone: “Me ne frego”. Sono tutti casi di successo che hanno rinunciato alle convenzioni perché avevano dentro di sé il fuoco del talento e il disprezzo per i luoghi comuni.

Poi c’è la parte più squisitamente musicale che racconta i ragazzi del nostro tempo così crudi, disincantati, poco sognanti, con i piedi per terra, per nulla convinti che l’amore sia quello cantato normalmente al Festival di Sanremo. Basta pancini sognanti e largo alla passione. Largo all’attimo e al diavolo l’eternità.

Ma anche in questo caso il pubblico non era pronto a sentir parlare di amore come di una delle tante sbornie, di sentirne parlare come di un sentimento tanto intenso quanto effimero e passeggero. No, il pubblico ha bisogno dell’ipocrisia di chi ancora ai nostri giorni descrive l’amore tempo con un sempreverde “io muoio per te”, di chi canta “felicità” ed “eternità” ma poi cambia partner come cambia i calzini. Perché questo è il nostro tempo travagliato, un tempo in cui nessun sentimento sembra essere eterno mentre invece al mainstream piace ostinarsi in narrazioni tutte “amore e cuore”. Ecco perché lo schiaffo in faccia di uno che si veste oggi da uomo e domani da donna infastidisce il pubblico. Ecco perché disturba uno che non canta l’amore giuggioloso e petaloso ma dice “dimmi una bugia che ci credo”, “prenditi gioco di me che ci credo”, ma stai comunque con me anche se solo per poco tempo. La concezione di amore è quella instabile dei giorni nostri, è “panna montata al veleno” e non ci penso nemmeno a buttare tutto all’aria per te perché tutto è veloce, tutto è instabile, tutto è a termine, tutto è un gioco intenso e non infinito. E allora facciamo quello che dobbiamo senza prometterci nulla perché tanto sarebbero promesse false in partenza. Ma questo ai tradizionalisti (con l’amante che si chiama Svetlana) fa arricciare il naso.

Diciamo che Achille Lauro non ha cantato in mutande, ma ha messo con il suo messaggio dirompente in mutande l’intera società.

Aggiornato il 11 febbraio 2020 alle ore 16:11