C’era una volta l’educazione

La famiglia e la scuola sono le più importanti e fondamentali istituzioni della società: ai genitori e agli insegnanti è affidata infatti l’educazione, che è il primo strumento nella formazione culturale, spirituale e morale di un individuo, dalla nascita sino alla maggiore età.

Ebbene, spesso queste due istituzioni, invece di formare dei giovani assennati, equilibrati e sereni, creano dei ribelli, e non di rado li spogliano addirittura di quelle virtù innate che, se opportunamente coltivate, avrebbero potuto fare di loro degli ottimi cittadini. Questo è il risultato di una cattiva educazione, dico cattiva perché se almeno mancasse del tutto e i giovani vivessero nella indifferenza della famiglia e della scuola, forse sarebbe già meglio. Non c’è dunque da meravigliarsi che vi siano tanti ribelli e delinquenti: la colpa è principalmente della famiglia e della scuola, da cui, non dimentichiamolo, provengono anche i politici e i governanti.

Certo, è un circolo chiuso (e qui il discorso sarebbe troppo lungo: c’è chi dà la colpa di questo degrado alla società e alle nuove tecnologie), ma da un punto bisogna pur cominciare, e il punto di partenza sono la famiglia e la scuola: devono cambiare le teste, con le buone o con le cattive, se non si vuole che a un certo punto arrivi un nuovo castigamatti.

Se oggi gli studenti italiani sono nel mondo all’ultimo posto per quel che riguarda la preparazione culturale, morale e spirituale, la colpa va ricercata soprattutto nella famiglia e nella scuola, cioè nei genitori e negli insegnanti, i quali spesso non conoscono nemmeno l’educazione più elementare, visto che addirittura vengono alle mani fra loro, quando non malmenano i bambini, e ci sono insegnanti, specialmente le donne, che per un niente si arrabbiano e scagliano i libri in faccia agli alunni quattordicenni.

Se mi è consentito di citare un caso personale (considerato che ormai, a novantaquattro anni, ho già un piede nella fossa), io nel “bieco” Ventennio, con l’educazione severissima che ho ricevuto in famiglia e nelle scuole che ho frequentato in ben dodici città (mio padre era ufficiale di carriera e quasi ogni anno veniva trasferito), sono diventato un uomo saggio, calmo e tranquillo, un educatore vero, stimato e amato dai miei alunni, dai miei colleghi e dai presidi, dei quali tutti ho raccolto e continuo a raccogliere testimonianze scritte quali nessun insegnante di oggi può vantare. Come quella che segue, scritta spontaneamente da una mia ex alunna (Daniela Perdichizzi) in un libretto dedicato ai suoi ex compagni di classe: “Il mio amore per la letteratura lo devo al mio professore d’italiano e latino. Se ripenso a lui mi viene in mente per prima cosa la sua grazia. Quando recitava e commentava la Divina Commedia o semplicemente la strofa di un sonetto, l’aula diventava la piazza della Firenze del Trecento e la cattedra il palcoscenico di un teatro dove si muovevano dame e cavalieri, tra il rumore dei cavalli e il vocio di un mercato all’aperto. Lui, con la voce pacata e i modi d’altri tempi, severo ma al tempo stesso rassicurante, era lì a raccontare la bellezza e la grandezza della lingua italiana. Mi spiace di non averne avuto allora la coscienza, ma lui stava seminando nel giardino della mia anima qualcosa che col tempo ha dato i suoi frutti. E di questo gli sono immensamente grata. Non era un professore come gli altri. Quando spiegava gli brillavano gli occhi, sia che descrivesse la dolcezza dello sguardo di Beatrice o lo smarrimento di Dante quando cadeva in amore per lei. Vestito sempre di tutto punto, in un’epoca in cui i professori indossavano jeans e maglioncino per farsi accettare dagli alunni, quando entrava in classe non si poteva fare a meno di stare in silenzio. Noi non lo sapevamo, ma lui stava gettando le fondamenta dell’edificio che ognuno di noi sarebbe diventato, e ha lasciato in tutti un segno indelebile del suo insegnamento. La riprova di ciò la leggo nelle parole di chi ha condiviso con me gli anni del liceo”.

Una volta l’insegnamento era una vocazione, che io ho cominciato a esercitare nella mia famiglia paterna all’età di quindici anni, assistendo i miei fratelli minori, tre dei quali sono diventati anch’essi professori (eravamo undici e ci siamo tutti laureati e ben piazzati nella società). Sono certo che gl’insegnanti di oggi, almeno nella maggior parte, non conoscono Giovanni Gentile, o lo conoscono come uno “sporco fascista” (così l’ha chiamato il preside di una scuola qualche anno fa), perché così sono stati “educati”, dopo la guerra, dai “vincitori”. “L’educatore”, ha scritto il grande filosofo nella sua Riforma dell’educazione, “accostandosi ai suoi discepoli, a cui si deve non soltanto magna reverentia ma lo stesso culto che a tutte le cose divine, deve sentirsi in alto, molto in alto, e deve perciò lasciar cadere tutte le miserie della sua particolare persona, e le sue preoccupazioni e passioni, e i pensieri prosaici del giorno e di tutti i giorni. Il fine dell’educazione è quello di dare ai giovani equilibrio allo spirito, di non opprimerli ma neppure di esaltarli a dismisura, di dargli l’unità attraverso la molteplicità dell’esperienza e della vita”.

Una volta alla fine dell’anno scolastico i presidi stilavano le cosiddette “note di qualifica” sugli insegnanti, che poi venivano inviate al ministero della Pubblica Istruzione. Eccone un esempio: “Docente dotato di non comuni capacità didattiche e di vasta cultura, si è sempre dedicato all’insegnamento con senso di responsabilità e notevole impegno. I risultati conseguiti sono sempre stati pienamente soddisfacenti. Carattere serio e ponderato, rispettoso verso i superiori, pienamente cosciente della dignità del suo ufficio, mantiene con i colleghi e le famiglie rapporti improntati a cordialità e reciproco rispetto. È benvoluto e stimato dagli allievi che ne seguono, con profitto, l’insegnamento”.

A un certo punto quella intrusione, quella “barbarie”, come qualunque controllo da parte del direttore scolastico, con l’intervento del sindacato a cui gl’insegnanti avevano fatto ricorso, fu cancellata, in omaggio alla libertà e all’eguaglianza di tutti. Oggi capita anche che il direttore di un Istituto di Educazione neghi ad un ex professore la presentazione, nell’Auditorium, di un suo libro (Lettera ad una scolaresca) scritto proprio su quell’Istituto in cui ha insegnato per una trentina d’anni. E ciò è molto più riprovevole di una mala educazione, tanto più perché non ha mai risposto personalmente, né per iscritto né per telefono, alle sue reiterate richieste.

Aggiornato il 11 novembre 2019 alle ore 13:12