La pena ha senso se genera speranza

Sebbene ineffabile, ovvero, forse, proprio perché ineffabile, il Guardasigilli, quando parla di carcere come svolta culturale, non ha torto; non del tutto, almeno, e nonostante (come direbbe Vattimo) l’intrinseca debolezza del suo pensiero.

Il carcere, inteso come luogo - e modo - privilegiato per l’espiazione della pena, può assurgere alla dignità di icona della reazione al male commesso, simbolo della punizione prevista dal Codice penale. Il carcere, nella sua dimensione temporale, misura il grado della riprovazione e l’assorbe tra le sue mura, segregando il colpevole dalla società della quale non rispetta le regole.

Il carcere sublima la sofferenza, esortando, attraverso di questa, alla redenzione, ma non crea le condizioni perché sia raggiunta. Il carcere è un mondo; anzi: un pianeta.

Dunque, Alfonso Bonafede non ha torto: scegliendo il carcere, segna il territorio delle sue idee; fa cultura, piaccia o no. Altro e diverso discorso è quello che si riassume nella domanda: è una buona cultura, quella di Bonafede? È buona cultura quella di coloro che criticano le recenti decisioni sulla pena svuotata di speranza?

Ecco: la speranza. La pena ha senso se genera speranza, se non spegne il lumicino in fondo al tunnel.

In quel lumicino c’è il torto di Bonafede e dei suoi mandanti o ispiratori: la speranza genera aspettative di premio; il premio diventa parte essenziale del Diritto penale.

Qui c’è la svolta - quella vera - di cui Bonafede non sa nulla: in una società evoluta, al Diritto penale bisogna accostare quello premiale e ricostruire anche il sistema delle pene. Anche questa è cultura. Migliore dell’altra, però.

Aggiornato il 28 ottobre 2019 alle ore 11:19