La sindrome del giapponese diventato cittadino romano

martedì 8 ottobre 2019


Quando si esce dalla fermata della metro Colosseo, ci troviamo di fronte lo splendido Anfiteatro Flavio, proprio lui, il più imponente monumento dell’antica Roma. Da qualche anno è circondato da cantieri, wc chimici e ciclicamente da centurioni, i figuranti in abbigliamento storico che si industriano per raggranellare un po’ di euro dagli stranieri che sembrano gradire le loro performance.

Il cittadino straniero appena si trova dinanzi a questa imponente presenza, il Colosseo, una delle sette meraviglie del mondo moderno, il più grande anfiteatro del mondo con una capienza di 50mila spettatori che assistevano alle lotte fra i gladiatori, fra animali feroci e alle esecuzioni dei condannati, non riesce a staccare gli occhi dalle sue curve e dalle sue mensole e dagli archi per la sua bellezza, non avendo pari monumento nel proprio Paese. Si ferma, lo fotografa, prenota la visita guidata, e ci accorgiamo di sfuggita che qualcosa porterà negli occhi e nel cuore al rientro in patria.

Il cittadino romano, invece, è abituato ormai alla presenza del monumento e non ci fa più caso assorto nei mille pensieri del vivere quotidiano e della giornata lavorativa imminente oppure già alle spalle. Gli gira intorno, forse gli darà pure impiccio perché talvolta il traffico e la fretta fa sì che si crei un imbuto proprio lì intorno e, se magari non ci fosse talvolta o potesse spostarsi un po’ per qualcuno, si scorrerebbe meglio, chissà! La differenza fondamentale tra il romano e lo straniero, in questo caso, consiste in un dato fondamentale ed incontrovertibile: l’abitudine uccide lo stupore.

Dieci o venti anni fa la notizia di un’aggressione di un medico nell’esercizio della propria attività lavorativa nel Pronto Soccorso ospedaliero ritengo avrebbe determinato uno stupore collettivo e l’informazione avrebbe avuto, come in effetti è stato, il giusto risalto dai media cartacei e televisivi.

Oggi, nonostante la drammatica escalation dei casi di aggressione ai camici bianchi, tre al giorno dicono i dati denunciati, è subentrata una assuefazione, una abitudine alla notizia, una disaffezione se non un certo fastidio verso la notizia in sé. Manca la reazione politica, manca la reazione dei cittadini, manca la reazione di quanti dovrebbero avere a cuore la tutela della sanità pubblica e degli operatori che vi lavorano a tutela della nostra di salute, individuale e collettiva.

E questa rivolta delle coscienze sembra mancare per tanti motivi. Perché magari ogni tanto salta fuori anche la notizia di qualche episodio di potenziale malasanità o anche perché salta fuori la notizia di qualche attività truffaldina addebitabile a qualche medico lesto di ingegno e privo di scrupoli.

La reazione sembra mancare anche a livello degli stessi professionisti, non a livello degli ordini che stanno cercando di farsi sentire né a livello di organizzazioni sindacali quali i medici della Cisl che soprattutto nel Lazio ogni giorno tentano di stimolare la riflessione anche aggiornando un bollettino di guerra che sembra non vedere la parola fine. Qualche politico che si fa vivo, qualche interrogazione, l’attesa per l’approvazione alla Camera del Disegno di legge sulle aggressioni, ma poi tutto resta limitato ai pochi o tanti addetti ai lavori.

E magari, anche tra i camici bianchi, c’è il rischio di disinteresse, magari inconsapevole, magari derivante dal fatto che un medico che lavora in un distretto oppure in un reparto, oppure in altra attività ambulatoriale, non sente di essere anche lui in prima linea proprio perché vede il Pronto Soccorso lontano dal proprio ambito di azione, un po’ come vestire la divisa militare in tempo di guerra ma lavorare dietro una scrivania al ministero della Difesa, anziché stare al fronte in prima linea.

E così facendo i casi aumentano di numero e di gravità. È di poche ore fa la notizia di un sequestro di due equipaggi del 118 in Calabria ritenuti colpevoli di non avere saputo salvare la vita ad un paziente. In passato, abbiamo avuto notizia di aggressioni verbali e fisiche, sputi, pugni, coltellate, spedizioni punitive, colpi di pistole esitati in ferimento o morte del camice bianco. Oggi la notizia del sequestro: a quando, ci chiediamo, la richiesta di un riscatto come ulteriore diversificazione di una strategia di violenza che nessuno sembra potere o volere arrestare?

@vanessaseffer


di Vanessa Seffer