Rio Grande, il fiume della vergogna

Confini, muri, filo spinato, mari e terre inzuppate di sofferenza imbavagliata, atrocità nascoste, massacri silenziati, dentro stati della mente ottusi e conclusi, dimensioni del cuore che non posseggono più alcuna compassione né pietà.

Recinti di potenti che non concedono più metri, anzi ne tolgono, tracce e orme di poveri cristi in sentieri ridotti a camposanti, la sentenza ultima tra gli scaracchi dei parolai. Il papà e la bambina adagiati a faccia in giù nelle acque del Rio Grande, due corpi ridotti a cose, la bellezza di quelle acque ridotta a miserabile fiume della vergogna. La bimba sta ancora abbracciata al suo papà, il braccio sulle spalle di quel corpo arreso definitivamente, uno accanto all’altro, nell’ultimo disperato tentativo di stare insieme, di sopravvivere ai dinieghi, alle sordità, alla fame e alla sete di giustizia, alla morte come unica soluzione.

I due corpi galleggiano privi di vita, ora non c’è più niente da fare per parare i colpi dei respingimenti, il rifiuto all’accoglienza, il disprezzo della povertà disegnata nei piedi sporchi. La bimba sta lì accanto a suo padre in una composta eppure terribile lontananza da ogni possibile e doverosa umanità, sta lì a confermare l’infamia dei comportamenti ricchi di ipocrisia nei riguardi dei passi trascinati dei soliti poveri, sta lì a fare da monito per questo mondo suddiviso in gabbie e recinti, un mondo disamato, peggio, disamorato. Quel piccolo corpo e quel braccino sulle spalle del padre, come voler salvare essa stessa chi le stava accanto, quella bimba senza più viso, sulla riva disarticolata dalla indifferenza degli anfibi, degli elmetti, della forza usata per meglio guardare da un’altra parte.

Padre e figlia sfiniti, annegati, i volti nascosti, nell’atrocità di una ingiustizia senza eguali, inumana accettazione dei soliti reiterati eventi critici, la bimba sta lì in tutta la solitudine che il legno e la croce dovettero subire, nulla è cambiato da allora. Neppure noi. La bimba e suo papà rimangono a destare la coscienza degli affaccendati alla polvere da sparo, alle tecniche di guerra, alle pratiche del terrore, di popoli fintamente mascherati di giustizia, angolazioni di disumanità abbandonata all’esclusione sociale. Costringere qualcuno in condizioni subumane è davvero una bestemmia pronunciata ad alta voce, una derisione all’onestà intellettuale, la bambina muore senza più una bandiera, muore per un pezzo di terra con tanti padroni e pochi giusti.

Papà e figlia soccombono per opulenza da difendere costi quel che costi, per un principio di sovranità compagno di viaggio del delirio di onnipotenza. Il dolore che suscita quella bimba disanimata in balia della risacca, spinge a non assoggettarci ad alcuna preghiera di circostanza, ma a fare un passo in mezzo per arginare la ferocia del più forte, per non abituarci alla tragedia del più debole a esistere in un territorio che non ha più speranza, perché oppresso dalla più ostile disperazione. Ci risiamo, proprio come ieri, uomini, bambini, trucidati, dentro un passato che non passa, che non insegna un bel niente, che non allena gambe solide per ritornare in un possibile futuro condiviso.

Aggiornato il 01 luglio 2019 alle ore 12:00