L’altra casta

Una società con una sola casta non è plausibile poiché l’esistenza di una casta ha senso solo se ne esistono altre. Per esempio, chi avesse la pazienza di seguire per qualche giorno i vari talk-show che riempiono il tempo televisivo dalla mattina alla sera, vi scoprirebbe tutti i caratteri di una casta che fa il paio con almeno un’altra, quella, secondo la non felice espressione di un noto libro, dei politici. Il termine più adeguato è, semmai, quello di consorteria nella quale conduttori, o conduttrici, rappresentano una sorta di vestali ambosessi il cui ruolo è duplice. Da un lato essi o esse cercano di mantenere vivo il “fuoco sacro” del politicamente corretto, sostenuti dai fastidiosi applausi, spontanei o prescritti, da parte del pubblico assoldato presente nello studio. Dall’altro aspirano e sperano nello scoop ossia nel tirar fuori da questo o quell’ospite una notizia fresca o una dichiarazione esplosiva, magari piccante e capace di trattenere l’attenzione dell’altro pubblico, il cosiddetto audience, in modo da soddisfare le esigenze dell’organo di controllo che finanzia la trasmissione, quello degli inserzionisti pubblicitari.

Al di sotto di questi personaggi vi è poi il folto gruppo degli ospiti che, però, tendono ad essere sempre gli stessi: li vedete oggi in un talk-show e il giorno dopo in un altro, pronti a lanciare le stesse invettive o a recitare le stesse preghiere in una liturgia che il sacerdote o la sacerdotessa di turno regolano ora con blandizia ora con fare da maestro o maestrina, ma con l’antenna costantemente orientata nella “giusta” direzione, cioè quella che sembra loro coincidere col “sentire comune”. Fra gli ospiti appaiono individui di ogni specie: rare persone colte e interessanti ma anche cantastorie senz’arte né parte, immancabili direttori di quotidiani e sconosciuti moralisti di ogni genere e provenienza, i quali, dopo qualche apparizione, diventano però ospiti fissi, rafforzando, con questo, il dilemma centrale: sono lì perché importanti o diventano importanti perché sono lì? Alimentando, con questo, la confusione ormai universale fra il successo e la notorietà.

Poiché la consorteria di cui stiamo parlando è costituita da più sotto-insiemi governati dai rispettivi conduttori o conduttrici, ecco che, periodicamente, essi persino si invitano fra loro rendendo generalmente ancora più “corretta” e banale la discussione su qualsiasi argomento. Poi, dopo estenuanti trattative segrete, scopriamo che uno, o una, è “migrato” o migrata da una rete televisiva all’altra, cosa che, d’altra parte, non modifica per nulla la loro prestazione e i loro valori di controllo, largamente popolari ma spesso francamente populisti, cui riservano permanente e obbligata devozione.

Fra la casta politica e la consorteria mediatica vi è un’analogia e varie differenze. La prima é il fatto che, ambedue, devono esprimersi pensando alla massa, senza la quale i politici non raccolgono voti e i mediatici non raccolgono pubblicità.

Le differenze sono più numerose. Ad esempio, ai portatori di riflessioni ben argomentate e di valutazioni competenti, soprattutto se lontani dal senso comune, viene riservata ben poca attenzione perché le opinioni troppo diverse dal “sentire comune” e dal semplicismo che l’accompagna non sono compatibili con i numeri dell’ascolto. A differenza dei politici, bastonati più volte per i loro passati privilegi finanziari, i mediatici non disdegnano compensi spesso da favola, che giustificano sottolineando che vengono pagati da aziende private e non dai contribuenti, dimenticando però che i contribuenti sono anche i consumatori sui quali, alla fine, grava il costo della pubblicità. Un atteggiamento che non pare molto coerente, almeno sul piano della testimonianza, con la loro pressoché unanime oratoria in difesa delle “fasce deboli”, oggetto permanente di tutte le loro prese di posizione davanti alle telecamere, coronate da applausi artificiosi.

Infine, a differenza della casta politica che si regge proprio sull’aperta presa di posizione ideale e partitica, presso la casta mediatica vige il principio assoluto dell’occultamento della propria posizione politica e ancor più, figuriamoci, elettorale. Su questo sarebbe da aprire una discussione a parte. Possiamo qui limitarci ad osservare che la dissimulazione delle proprie idee politiche, se vi sono, non può essere spacciata per “oggettività” perché, se così fosse, potremmo eliminare sia i partiti sia le elezioni affidando il Governo a persone che non professino alcuna propensione politica, raggiungendo così uno stato di equilibrio perfetto e di felicità collettiva. Peccato che, un simile quadro, piuttosto ingenuo, coinciderebbe con la paralisi totale poiché nessuno prenderebbe decisioni in quanto, decidere, significa scegliere e, per scegliere, occorre inevitabilmente qualche criterio ideale di ordine politico.

In realtà, anche i conduttori e le conduttrici dei talk-show entrano nelle cabine elettorali e lì, ben nascosti, esprimono la loro identità politica come facciamo tutti noi. Al contrario, nelle loro prestazioni televisive, essi manifestano una sorta di agnosticismo politico che tuttavia finisce per porsi come una specie di ideologia vera e propria, consistendo in un atteggiamento che, dando un colpo al cerchio e un colpo alla botte, può soddisfare chi da sempre pensa che la ragione stia genericamente un po’ di qui e un po’ di là o, peggio, che la politica sia una cosa sporca.

Sotto questo profilo, non si può certo affermare che i conduttori della casta o consorteria mediatica svolgano un servizio pubblico encomiabile soprattutto quando si avventurano in preoccupate analisi e discussioni su un’antipolitica che, col loro atteggiamento, non fanno che praticare e incoraggiare. È infatti veramente triste che, esattamente nel momento in cui danno e tolgono la parola a fieri rappresentanti della destra o della sinistra, costoro intendano apparire come esseri superiori rispetto alla polemica politica, quasi venissero da Marte o come se fossero baciati da una forma di saggezza sconosciuta ai poveri mortali. Il risultato è che, mentre buona parte del pubblico sta al gioco, si lascia incantare e magari indurre all’astensione politico-elettorale grazie al sussiego super partes di questi opinion leader che però si presentano senza opinioni, altri si dedicano alla caccia delle loro preferenze politiche, peraltro non raramente intuibili nonostante il rigoroso silenzio sull’argomento da parte degli interessati.

Personalmente credo che talk-show condotti da persone che dichiarassero apertamente la loro afferenza ideale o di partito non solo non sarebbe un male ma, al contrario, renderebbe più genuina e più vivace la discussione. Non si deve infatti dimenticare che l’onestà intellettuale non è prerogativa di questa o quella parte politica e, di conseguenza, anche un conduttore dichiaratamente, che so, socialista, non avrebbe alcuna difficoltà nel dare la parola ad un liberale, magari convenendo con lui su vari argomenti. Insomma, al politicamente corretto dovremmo preferire un più semplice atteggiamento “eticamente corretto” entro il quale la propensione politica sia sinceramente professata nel pieno rispetto delle propensioni altrui.

Tuttavia mi rendo conto che si tratta di auspici del tutto utopici in un’Italia in cui la politica più che sporca è fortemente faziosa e i gentiluomini si contano sulle dita, col risultato che essa, in tutti gli ambiti e in tutte le consorterie, gioca comunque un ruolo dominante sebbene occultato o camuffato. Forse è anche per questo che i personaggi mediatici cercano di celare, con successo alterno, il proprio orientamento invocando, come tanti piccoli borghesi d’altri tempi, la segretezza del voto. Mentre è solo ipocrisia di casta.

Aggiornato il 01 luglio 2019 alle ore 11:24