Noa: l’ultima carezza

venerdì 7 giugno 2019


Scuote le coscienze il gesto della diciassettenne olandese Noa Pothoven la quale – contrariamente a ciò che hanno riportato i giornali di tutto il mondo in questi giorni – non è morta di eutanasia ma ha semplicemente smesso di mangiare e di bere lasciandosi andare nel soggiorno di casa sua.

Noa era una ragazza olandese di 17 anni che era stata ripetutamente aggredita sessualmente da bambina e per questo soffriva di disturbi da stress post traumatico, di grave depressione, anoressia e autolesionismo: più volte aveva tentato il suicidio ed era stata ricoverata in clinica raccontando la sua storia in un libro autobiografico.

Siamo stati a lungo indecisi se occuparci di questo caso oppure dare l’ultima carezza a questa ragazzina bionda, l’ultimo segno di rispetto consistente nel lasciarla riposare in pace dopo una vita di sofferenze. Ma poi abbiamo pensato che, se anche solo parlare di vicende come queste potesse servire a smuovere le coscienze, allora probabilmente ne varrebbe la pena. No, non si tratta di eutanasia ma comunque il tema irrompe prepotentemente nella vicenda così come quello della rete di protezione sociale che (una volta tanto) ha correttamente evocato Papa Bergoglio commentando la notizia.

Cosa porta una ragazzina come Noa a desiderare di morire? In primis una serie di episodi dirompenti a sfondo sessuale che stanno diventando tragicamente troppo frequenti in questa epoca. Vuoi a causa della mancanza di una rete di sicurezza (quella che dal passante giunge alle forze dell’ordine transitando per il vicino di casa) e vuoi per la diffusione della bestialità come modello vincente, quello in cui vivono i nostri ragazzi sta diventando un brutto mondo. E, cosa ancor più preoccupante, noi non stiamo facendo nulla per migliorare la situazione, nemmeno il minimo sindacale ovvero quello che faceva il tuo vicino di casa quando ti seguiva per vedere se ti eri messo nei casini, sicuro che tuo padre avrebbe fatto lo stesso con suo figlio.

Non secondario è il problema dell’isolamento, quello strano individualismo che ci ha resi tutti numeri primi e che probabilmente pesa come un macigno sulle spalle di chi si trova a dover scalare in solitudine le montagne che la vita ti pone di fronte. Chi ha un disagio è vissuto dalle persone prossime come un problema e per questo viene abbandonato al suo destino perché non è più strumentale alla “grande bellezza” di cui siamo diventati tutti ingordi. La solitudine si autoalimenta e ingigantisce i problemi fino a farli apparire insormontabili a tal punto da rendere possibile che si desideri la morte come liberazione dal male di vivere. E quand’anche tutto ciò rendesse (forse apparentemente) insopportabile continuare a svegliarsi la mattina, nessuno, non lo Stato e non la Chiesa, dovrebbe sindacare sulle scelte di vita o di morte come se l’esistenza di ognuno di noi appartenesse ad altri, come se essa fosse patrimonio indisponibile. Dal male di vivere fino ad arrivare alla scelta di non soffrire se hai una patologia incurabile, nessuno dovrebbe pretendere di poterti commissariare raccontandoti che ci sono altre soluzioni e che tu non devi mollare costringendoti (in molti casi) a scegliere vie cruente per andare.

Le istituzioni dovrebbero mostrare pietà ed offrirsi di alleviare le tue pene così come in qualche caso ha provato a fare Marco Cappato – l’unico vero erede di Marco Pannella – cui non smetteremo mai di guardare con ammirazione per l’impegno civile sul tema. D’altronde le leggi dovrebbero consentire a tutti di sentirsi liberi di scegliere a seconda della propria sensibilità e non dovrebbero imporre prescrizioni di ordine morale.

Crediamo però che, più di ogni altra cosa, contino le ultime granitiche parole di Noa, con buona pace di chi vuole spiegarci come si fa: “Ho ragionato a lungo se condividere o meno questo post, ma ho deciso di farlo comunque. Forse questa scelta sarà una sorpresa per alcuni, ma ci stavo pensando da molto tempo quindi non è una decisione impulsiva. Vado dritto al punto: al massimo entro 10 giorni morirò. Dopo anni di battaglie, sono esausta. Ho smesso di mangiare, di bere, e dopo averci a lungo ragionato, ho deciso di lasciarmi andare, perché la sofferenza è insopportabile. È finita. Per molto tempo la mia non è stata vita, ma sopravvivenza. Respiro ancora, ma non vivo più. Sono ben curata, ottengo sollievo dal dolore e sono con la mia famiglia tutto il giorno (sono in un letto d’ospedale nel soggiorno di casa mia). Sto salutando le persone più importanti della mia vita. Non posso più chiamare. Sono molto debole quindi riservo queste cose alle persone più importanti. Con questo post, inoltre, vi chiedo di non inviarmi messaggi, non posso più gestirli. Va tutto bene. Non provate a convincermi che questa non è la scelta giusta, questa è la mia decisione ed è definitiva. L’amore è lasciare andare, in alcuni casi… Grazie per il vostro supporto. Con amore, Noa”.

Chiaro che tutto questo attiene solo incidentalmente alla storia di Noa e ovviamente non implica che si possa assistere a cuor leggero una minorenne mentre si lascia morire. I minorenni vanno aiutati e protetti prima che sia troppo tardi. Forse in questi casi, se non comprensione, sarebbe opportuno un minimo di rispetto.


di Vito Massimano