Cucchi morto di proibizionismo

Stefano Cucchi, a pensarci bene, non è morto solo perché probabilmente picchiato da due quasi ex carabinieri. E nemmeno perché tossicodipendente e piccolo spacciatore di strada e quindi sempre esposto alle intemperie del caso. No, lui, e quelli come lui, sono morti, muoiono e continueranno a morire a causa della logica sempre più assurda del proibizionismo sulle droghe. A cominciare da quelle leggere.

Dai verbali del carabiniere Francesco Tedesco, quello che alla fine ha denunciato i suoi due commilitoni, esce infatti fuori una circostanza che se verrà confermata - come appare probabile - potrebbe persino essere peggiore del fatto che Cucchi sia stato pestato. E cioè che l’ex capo della caserma dove sarebbe avvenuto il fattaccio, pressava tutti i giorni i propri sottoposti, perché facessero gli straordinari per arrestare e riarrestare sempre i soliti pesci piccoli in zona. E questo soprattutto per fare statistica e ottenere encomi e avanzamenti di carriera. Poi in questa atmosfera di tipo nevrotico ossessivo neanche ci si deve meravigliare se qualcuno di questi carabinieri semplicemente perde l’equilibrio.

È una logica infatti che non tiene neanche conto dell’uso del denaro pubblico: in America un procuratore distrettuale all’Fbi neanche gli da il budget per simili operazioni, che restano appannaggio delle polizie locali. In Italia invece si apre un’inchiesta per ogni minima cosa, profittando della obbligatorietà dell’azione penale. Notoriamente queste sono battaglie che in Italia portano avanti solo i radicali del Partito radicale transnazionale di Maurizio Turco, Rita Bernardini, Sergio D’Elia e Antonella Casu. E proprio da una trasmissione di Radio Radicale, il Notiziario antiproibizionista del lunedì alle 13 condotto da Roberto Spagnoli, è venuta fuori l’ultima trovata quasi incredibile di quelli che possono senza tema di smentite essere definiti “i professionisti del proibizionismo”.

Un ex tecnico del dipartimento antidroga dell’epoca di Carlo Giovanardi, uno che non merita neanche di essere citato, si è messo in testa, scomodando le risorse di tre università italiane, di dimostrare che da 30 grammi di cannabis light, dotandosi di un potente e scomodo da reperirsi e da usare “estrattore”, mediante un procedimento da “piccolo chimico”, si può sintetizzare qualcosa come 25 milligrammi di thc e quindi farsi un paio di canne.

Tutto per dimostrare che la cannabis light, benché in vendita, non sarebbe veramente innocua. Con un ragionamento che sfiora il processo alle intenzioni da una parte e il ridicolo dall’altra: comprare trenta grammi di cannabis light costa in farmacia o nei negozi appositi un centinaio di euro. Dotarsi di estrattore, ammesso che lo si trovi e lo si sappia usare, almeno altri duecento euro, e tutto per farsi una canna o due che si trovano in piazza a dieci euro? Ma a cosa arriva, verso quale punto estremo si spinge, la logica di un cervello umano accecato dall’ideologia proibizionista? Probabilmente a determinare anche quella atmosfera e quel contesto di violenza in cui ha trovato la morte il povero Stefano Cucchi.

Aggiornato il 16 ottobre 2018 alle ore 20:18