Caso Cucchi: quando la violenza tarda ad adeguarsi

Il caso del giovane Stefano Cucchi, assassinato dai carabinieri che lo avevano in custodia con un brutale pestaggio è episodio che, da una parte ci impone di prendere atto che nel nostro sistema giudiziario e nella prassi delle forze dell’ordine del nostro Paese certi episodi di barbarie sono oramai eccezionali e trovano anche una sia pur tardiva e difficile repressione. Dall’altra esso ci ammonisce che la barbarie della tortura giudiziaria è dura a scomparire, che fino a ieri è stata assolutamente “normale” nelle nostre caserme e nei nostri commissariati e che del pari “normale”, anziché la repressione di essi era la repressione di ogni aperta denuncia del triste fenomeno da parte della Magistratura che avrebbe dovuto ad essi rigorosamente opporsi e reagire.

Lo stesso ho inteso nei miei giovanissimi anni, dei carabinieri vantarsi di aver “saputo” far confessare un accusato a suon di botte ed anche di raffinate torture. Anche in epoca meno lontana vi sono stati processi (ne ricordo uno, per sequestro di persona, avanti al Tribunale di Civitavecchia in cui la tortura degli imputati, tanto erano dei pastori sardi... venne largamente utilizzata) sotto la “direzione” di un magistrato già mio compagno di studi universitari.

Che il fenomeno sia scomparso, che poliziotti, carabinieri (e magistrati) abbiano tutti il culto degli insegnamenti di Cesare Beccaria, non si può purtroppo affermare. Certo qualche decennio fa quella che sembra profilarsi come soluzione del “caso Cucchi” sarebbe stata impensabile. Ma la barbarie è sempre in agguato e se essa si manifesta con modalità diverse e più “moderne”, non direi che si possa stare veramente allegri.

Ieri le torture, verbalizzate e “regolate” dai libroni del cosiddetto diritto. Poi i pestaggi e le “coperture indecenti” e, magari, le raccomandazioni “prudenti” degli avvocati di non tirar fuori lagnanze poco concludenti e “irritanti”. Oggi l’eccezionalità degli episodi di grave violenza inquisitoria e, magari, un po’di giustizia per le vittime. E di silenzio per altre. Oggi però ci sono i “pentiti”. È un “progresso”? Solo ipotizzarla una simile affermazione mi dà i brividi.

Del resto, Alessandro Manzoni in quella sua preziosa operetta “Storia della Colonna Infame” ha spiegato in modo esemplare che tra la tortura e l’uso della “impunità” ai correi “collaboranti” sono fenomeni che hanno la stessa radice e rappresentano due forme della stessa ingiustizia. Ben venga giustizia per il “caso Cucchi”. E non voltiamoci dall’altra parte né per negare che un progresso, comunque, c’è stato, né per evitare di gridare l’allarme per i casi in cui “simili sistemi” sono duri a scomparire. Ma non dimentichiamo l’insegnamento di Manzoni, la sua identificazione morale e logica della tortura con il “pentitismo”. Chi, magari, arrivi all’abominio di fare dei “pentiti” degli eroi intangibili, depositari di ogni pur impossibile verità, ricordi che ha poco da rallegrarsi se il caso Cucchi ha preso la piega che ha preso. Ricordiamo Manzoni.

Aggiornato il 15 ottobre 2018 alle ore 11:16