Riflessioni “in grate”

giovedì 2 novembre 2023


La curiosa proposta di riutilizzare le caserme dismesse come carceri

Mentre il ministro Carlo Nordio, forse consigliato da quanti non hanno una visione realistica del mondo penitenziario, ipotizza un riutilizzo delle caserme, dismesse tanti anni fa, per fronteggiare lo straripamento delle già stressate carceri italiane, in modo irriverente, mese dopo mese, prendono invece forma tante carceri virtuali”, tutte piene di persone detenute con i propri nomi e cognomi, le quali si vanno a aggiungere a quelle già tronfie di ristretti. Il grafico lo spiega (vedi qui) e i dati che ho analizzato non hanno personalità politica e non conoscono la dimensione del pregiudizio.

Le persone detenute nelle carceri italiane, al 31 gennaio 2023 (nell’istogramma rappresentato dalla colonna numero 1), a fronte di una cosiddetta e mistificatoria capienza “regolamentare”, cioè ricettiva, di 51.403 “posti”, erano 56.127 unità. Al 30 settembre dello stesso anno, non solo la capienza si è ridotta a 51.285 unità, ma la popolazione è aumentata, giungendo al numero di ben 58.897 unità (dati estrapolati dal sito del Ministero della Giustizia). Perciò, mentre il ministro ipotizza l’impiego di caserme, da individuare e riadattare come nuove carceri, allo scopo evidentemente di soddisfare una esigenza che è alle sue spalle, innanzi a lui, mese dopo mese, si vanno materializzando altre analoghe emergenze, dovendo trovare delle idonee sistemazioni per allocare i detenuti cosiddetti “nuovi giunti”. Da gennaio a settembre 2023, la popolazione detenuta è, infatti, cresciuta di ben 2.770 persone; all’incirca il corrispettivo della capienza “sold out” di almeno altri 10 istituti che, però, non ci sono, dove si considerasse una capienza media per ogni struttura, solo immaginata, di 277 detenuti, oppure di un numero maggiore, visto che al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria si preferisce parlare di nuovi “padiglioni penitenziari”. I quali, normalmente, accolgono circa 200 detenuti. Talché sarebbero già occorsi almeno tredici complessi detentivi all’interno delle aree penitenziarie esistenti.

Francamente, non mi piace l’idea di carceri che gemmano altre carceri al proprio interno; mi ricorda l’anatocismo bancario, dove gli interessi producono altri interessi. Occorrerebbe infatti pensare che le carceri già realizzate, ancorché non belle e perfette, comunque rispondevano a un minimo di logica architettonica, spesso dotate di spazi verdi e campetti sportivi, con la previsione di una qualche, seppure modesta, distanza tra un manufatto e l’altro, onde ridurre la sensazione di oppressione che produce effetti negativi pure nell’umore di quanti vivano quei contesti, compresi gli stessi operatori penitenziari. Insomma, un tentativo di composizione residenziale urbana “sui generis”, dove non prevalesse la cupa sovrapposizione di cemento su cemento, infarcito di telecamere, barriere, filo spinato, garitte, impianti antintrusione e anti-scavalcamento. Inoltre, edificare nuovi padiglioni penitenziari, dentro altre carceri, richiede pure tanta attenzione nell’accordo con i servizi e sottoservizi esistenti, per prevenire il formarsi di pericolosissime criticità: si pensi agli impianti tecnologici di gestione del calore, alle fognature, agli impianti e centrali elettriche, a quelli idraulici ed alla fornitura costante di acqua potabile e dei relativi allacciamenti anche per gli impianti antincendio, idem per le linee dati e i cablaggi dedicati, le linee telefoniche. Tutti aspetti rilevanti dove si minaccino l’ordine e la sicurezza degli istituti, specie nel caso di evacuazione della popolazione detenuta nel caso in cui vi fossero incendi, inondazioni, scosse telluriche, rivolte. Ed un tanto anche a doverosa tutela di quel bene prezioso che è il capitale umano penitenziario.

Non tenere conto dell’accresciuto carico antropico, fatto cioè di persone e non di cose inanimate da stivare, non aiuta certamente a favorire una più adeguata e ordinata gestione del tutto. Ma se pure si volesse insistere nell’idea, occorrerà immaginare una media temporale per le nuove realizzazioni, sempre che tutto sul piano amministrativo risulti disponibile e perfezionato (fondi già assegnati, progetti preliminari, definitivi ed esecutivi approvati, gare d’appalto esperite e che abbiano superato il rischio di ricorsi di sorta, conforto degli enti locali e delle aziende sanitarie, di regola colpevolmente poco coinvolte, previsione certa delle tempistiche e delle autorizzazioni, soprattutto in materia di allacci di utenze telefoniche, del gas, dell’acqua, dell’energia elettrica, delle reti informatiche intranet e di quelle ordinarie, della rimozione rifiuti, della logistica, da prevedere e assicurare, per dei nuovi servizi pubblici o per il loro ampliamento, come quello del trasporto urbano per i visitatori e familiari dei detenuti, nonché per lo stesso personale, al fine di prevedere l’installazione di nuove fermate di autobus e metro), di almeno altri  cinque anni. Previsione comunque davvero ottimistica, di fronte a storie di carceri, ancora da realizzare, che datano almeno trenta se non più anni di gestazione e di altri previsti istituti penitenziari, i cui lavori sono stati avviati ma ancora non conclusi, per ragioni diverse e spesso sub iudice.

Il florilegio di errori e orrori di diversa natura compiuti negli ultimi decenni è formidabile. Mentre, però, non ricordo azioni di responsabilità, pure perché in tanti potrebbero avere contribuito al danno, ma poi occorre anche tener conto dell’impatto negativo che si determina sugli stessi operatori penitenziari, già stressati e in forte fibrillazione, a motivo di antiche e persistenti carenze di risorse umane di polizia penitenziaria, di direttori, di comandanti, di funzionari giuridico-pedagogici, di psicologi, di assistenti sociali. Insomma, di “tutto”. Per cui, parallelamente all’ideazione di nuove strutture, andrebbero assicurate le risorse di personale necessario, essendo amorale continuare a varare, quando davvero si riesca, delle nuove navi senza equipaggio e comandante. A peggiorare la situazione, poi, si aggiungono gli effetti devastanti della costante e progressiva creazione di nuove fattispecie penali da parte di tutti i governi, criticità che aumentano lì dove dei partiti se ne facciano una “spilletta” da esibire, per fare accouplé con uno slang politico composto da slogan muscolari. Ogni novità penale che si traduca in nuovi arresti e poi, ancora, condanne, inevitabilmente, oltre a far gonfiare il nostro catalogo dei reati, determinerà il rigonfiamento della popolazione detenuta, aggravando la situazione delle carceri esistenti. A poco servirà affermare che ciò sia pure dovuto da una eredità ricevuta senza beneficio d’inventario, dono dei precedenti Esecutivi e delle loro curiose maggioranze, perché la palla, oggi, è comunque tra i piedi del Governo Meloni. Per questo auguro alla presidente del Consiglio e al ministro della Giustizia di diffidare di quanti propongano soluzioni miracolose, irrealizzabili “rebus sic stantibus”.

Si abbandoni, perciò, quantomeno per il medio periodo, l’idea delle caserme, le quali, proprio perché avevano ospitato, fino al momento delle loro dimissioni, mezzi e armamenti, oltre che essere state, luogo di addestramento ed esercitazioni, potrebbero essersi trasformati in siti con sedimi inquinati (zolfo, piombo, infiltrazione di idrocarburi e falde inquinate), la cui bonifica richiederà altre risorse finanziarie e provocherà l’allungamento dei tempi per la riqualificazione e la conversione ad uso penitenziario. Altre soluzioni, quelle sì di natura politica, andranno perciò immaginate: sarà inevitabile, è solo questione di tempo! Una su tutte, la più facile e controllabile: l’amnistia. Lo Stato, rinunciando all'applicazione della pena, con la legittima giustificazione dell’acclamato grave stato delle carceri perché (e diciamolo senza reticenza) mancano le celle, le brande e i materassi a norma, i cortili di passeggio coperti e scoperti, le aule scolastiche e per la formazione professionale, i refettori, le docce, i gabinetti e i bidet, i luoghi di culto e di svago, e perfino il personale necessario, evita di violare sistematicamente e intenzionalmente l’articolo 27, comma 3° della Costituzione (ma in verità sono tanti altri gli articoli della Carta che pure verrebbero violati); il Governo e lo Stato, infatti, non sono “legibus solutus”, non possono agire illegalmente. Non si tratterebbe, quindi, di apparire deboli di fronte alla criminalità, soprattutto quella organizzata, ma del suo perfetto contrario, perché è serio e forte lo Stato che imponga anche a se stesso il rispetto delle proprie leggi e in primo luogo di quelle costituzionali, nonché le ulteriori derivanti da accordi e patti internazionali.

Accanto all’amnistia, come è intuibile, occorrerà, però, predisporre un serio piano straordinario di riqualificazione delle vecchie e/o usurate carceri e per la realizzazione di quelle nuove, nominando un Commissario straordinario ad hoc. In caso contrario, ci dicano davvero come intendano affrontare il problema non fra un anno, cinque o dieci, ma ora, perché adesso le carceri rischiano di tirare l’ultimo respiro. Un’amnistia, ripeto, è non l’indulto, perché quest’ultimo farebbe lavorare inutilmente i tribunali e le carceri, servirebbe a rilanciare per davvero il nostro sistema giudiziario e penitenziario, concedendo a esso il tempo di sollevarsi e di tirare un sospiro. Insomma, una tregua per recuperare forze, coraggio e capacità di prospettazione, nel tentativo di risolvere finalmente i tanti drammatici problemi ereditati dagli impuniti venditori di fumo legislativo.

(*) Penitenziarista, presidente dell’Osservatorio internazionale sulla legalità di Trieste, presidente onorario del Cesp-Centro europeo di studi penitenziari


di Enrico Sbriglia (*)