Democrazie in disarmo: la caduta dell’Occidente

Basterebbe voler “vedere ciò che si vede”! Impossibile esercizio della virtù di Mr. Lapalisse quest’ultimo, se si indossano i paraocchi del “politically correct” e della “cancel culture”, oggi al potere negli Usa, la capofila teorica, lo stanco Re Artù di tutti gli invecchiati Lancillotti disarmati delle ex potenze europee. In poche parole, l’Occidente oggi in disarmo intellettuale, politico e militare di fronte alle Autocrazie, va ripetendo a memoria la trista storia degli Imperi in declino irreversibile. Perché, con la dotazione dei vigliacchi, morbidamente adagiati sui lussi e sui vizi di quasi ottant’anni di pace in Europa, noi non abbiamo voluto vedere ciò che da tempo abbiamo permesso che accadesse. Perché, come tanti Don Abbondio, non vogliamo confessare che i demoni di ieri sono regolarmente tornati tra di noi, dato che essi, semplicemente, “fanno parte della nostra stessa natura di uomini” e, quindi, resteranno a farci compagnia fino all’estinzione della nostra specie!

Allora, vogliamo dirlo forte e chiaro, come fa Nicolas Baverez nel suo ultimo saggio “Democratie contre empires autoritaires. La Liberté est un combat” (di cui Le Figaro pubblica alcuni estratti) che è finita l’era dominata dalle forze di integrazione dell’economia mondiale? Sta finendo, cioè, un mondo ridotto a terra di conquista da parte del capitalismo finanziario, che oggi diviene semplicemente un “Re Nudo”, perché i nuovi imperi nazionalistici della forza non ne riconoscono più il valore dominante (l’unico, forse) del Dio Denaro!

La geopolitica (che si voleva estinta come il Tirannosauro della Guerra fredda) torna a vendicarsi di noi, ripristinando i rapporti di forza, solo ieri quasi estinti, e mettendo da parte la supremazia degli interessi commerciali. Irridendo la “Fine della Storia” ipotizzata da Francis Fukuyama, già da questi primi suoi passi il XXI secolo si presenta, al pari del precedente, come un non breve periodo di ferro e di fuoco, la cui posta in gioco sarà proprio la Libertà politica. La partizione in Blocchi del sistema internazionale appare fusa nel piombo della sempre più insistente confrontation tra imperi autoritari e democrazie, il cui motore è rappresentato dall’estrema determinazione dei primi a prevalere sulle seconde, creando una seria alternativa politica all’Occidente. In Vladimir Putin, ad esempio, l’espressione del suo potere assoluto si esprime con la guerra (Cecenia, Georgia, Ucraina), per estendersi attraverso la legione dei mercenari russi in Siria, Crimea, Libia e Africa. Stesso proclama bellicoso venne adottato dieci anni fa da Xi Jinping, secondo cui “il capitalismo inevitabilmente perirà, e il socialismo inevitabilmente trionferà”, avendo come obiettivo l’avvento di una nuova era per l’umanità sotto la guida del comunismo cinese. E di certo le ambizioni di Xi non si limitano a Taiwan (già considerata “Sua” di diritto!), come il desiderio di Putin guarda molto più lontano della mera conquista di Kiev. Ed è in questo disturbante contesto che la guerra si riaffaccia sull’orizzonte delle Nazioni, compresa la proliferazione nucleare e la minaccia connessa e, a oggi, non c’è nulla che garantisca l’Equilibrio del Terrore vigente durante la Guerra fredda.

Ed è un dato di fatto che la “democratura” di Putin ha riportato la Russia nell’ex mondo staliniano della menzogna e della polizia segreta. Questo modello “innovativo” di Governo dell’Autocrate russo si organizza accentrandosi sul culto dell’uomo forte, sulle passioni identitarie, nazionaliste e religiose. La democratura non teorizza il terrore di massa, come avvenne con Lenin e Stalin, bensì la cancellazione puntuale di ogni forma di opposizione, pur mantenendo una sorta di facciata democratica, come il suffragio universale e il multipartitismo. Salvo poi ricorrere sia a massive frodi elettorali che rimangono impunite. Senza dimenticare l’utilizzo monopolistico dei media di Stato e l’invio di mass message per influenzare via social il risultato delle elezioni. In compenso, la democratura non riconosce le libertà individuali, né lo Stato di diritto il cui formalismo è ritenuto contrario agli interessi del popolo e della Nazione, privilegiando al contrario la forza per affermare il principio di legittimità del potere, sia all’interno che all’esterno del proprio Paese. La conseguenza è ovvia: si ritorna alla politica di potenza e all’espansionismo territoriale, previo ricorso alla guerra. Nel caso di Putin, si privilegia il ritorno in seno alla Grande Madre Russia dei territori perduti a seguito del crollo dell’Urss. Un obiettivo di portata storica, che necessita delle seguenti premesse: rendere a vita il mandato presidenziale; attuare il controllo dello Stato da parte di servizi segreti; favorire l’appropriazione del monopolio dell’energia e delle materie prime da parte degli oligarchi fedeli alla corte del nuovo Zar; ricorrere a un riarmo massivo.

Via, dunque, il dogma marxista; entri pure al suo posto l’imperialismo e l’ortodossia, facendo affidamento, alla maniera di Tocqueville, sui valori eterni del patriottismo e della religione. Si rompe così, definitivamente, con gli anni bui di Boris Eltsin, e si dà spazio al revanscismo contro l’Occidente per riscattare la presunta “umiliazione della Russia”. Torna a questo punto, non richiesto e indesiderato, il mondo di ieri: quello dello scontro ideologico, stavolta tra un Global South e un Global West che non si fidano più l’uno dell’altro e che sempre più spesso si disprezzano. Per la Cina, tutto ha inizio con la dichiarazione di guerra all’Occidente formulata da Xi Jinping nel 2017, in occasione del 19esimo Congresso del Pcc (Partito Comunista cinese), in cui ebbe a dichiarare che la Cina era ormai pronta a “occupare il suo posto al centro del mondo”, affinché la sua influenza globale fosse adeguatamente commisurata al suo crescente potere. In quell’occasione, Xi formulò la tesi secondo la quale il modello socio-economico cinese rappresentava un passo in avanti (dell’umanità) rispetto a quello ormai superato delle liberal-democrazie e del libero mercato, che da sempre contraddistingue la posizione ideologica della superpotenza dominante (collettivamente intesa come America e Paesi dell’Occidente in generale). E poiché, quindi, proprio grazie al suo modello di “capitalismo autoritario”, la Cina aveva raggiunto il suo potere nel mondo e l’attuale livello di benessere, era in grado di offrire a tutti gli altri Paesi meno economicamente avanzati di lei una nuova opzione per rilanciare il loro sviluppo, mantenendo la propria indipendenza.

Una vera e propria ipocrisia, come dimostrano i fatti, dato che con le risorse della “Belt and Road Initiative” la Cina ha strangolato con i propri crediti proprio quei Paesi emergenti, che si erano indebitati incautamente con lei per il finanziamento di grandi infrastrutture nazionali, dovendo quest’ultimi, per compensare la propria insolvibilità, cedere una parte del loro potere sovrano (concessioni minerarie e sfruttamento del territorio). Ma proprio il discorso di Xi (che, in un certo senso, fa eco a precedenti, analoghe prese di posizione di Vladimir Putin nel corso della sua guerra ideologica contro l’Occidente) cambia la natura stessa della competizione tra superpotenze, spostandola dal piano commerciale a quello ideologico e dei sistemi di governo. Sfida quest’ultima alla quale le democrazie occidentali non erano assolutamente preparate, nell’illusione che durassero per sempre i dividendi della pace post-1991 (anno di caduta dell’Urss e della fine della Guerra fredda) e, quindi, la supremazia dell’Occidente rispetto al resto del mondo. Sicché, di conseguenza, torna in auge la rivalità diretta (e non più la cooperazione multilaterale) tra grandi potenze che caratterizza oggi gli stravolgimenti della geopolitica attuale. In questo nuovo quadro internazionale, Cina e Russia sfidano e rimettono in discussione il precedente ordine mondiale, contendendo all’Occidente spazi vitali nel Pacifico occidentale e nell’Est Europa, rispettivamente, per costruirne (forse) uno alternativo, ma assai meno compatto per la sua scarsa omogeneità, che oggi viene (provvisoriamente) definito come Eurasia.

In questo, il loro attuale sfoggio di potenza è quanto di più insidioso e pericoloso possa esistere per la sicurezza dell’intero Occidente, rimettendo in discussione principi fondamentali del diritto internazionale onusiano, come la libertà di navigazione e quello di non-aggressione. A tal fine, le Autocrazie ricorrono a strumenti come l’istigazione, l’intimidazione e la pressione militare, per rendere l’ambiente internazionale sempre più ricettivo rispetto alle loro ambizioni geopolitiche. Ecco perché i venti di guerra si fanno sempre più forti e insistenti. Parlandone (e temendo troppo il conflitto), però, si tende a sottovalutare l’aspetto della competizione ideologica, ferocemente e radicalmente presente nel passato confronto tra i Blocchi Est e Ovest dal 1945 al 1991. Per cui si deve, innanzitutto, tornare a conquistare i cuori e le menti dei popoli. La guerra non crea ordine permanente, ma lascia infinite scie durature di odio alle sue spalle. E la neo-competizione riguarda aspetti assolutamente fondamentali della convivenza civile, quali le modalità con cui le società umane si auto-organizzano e le forme conseguenti di Governo che adottano. Ora i più grandi revisionisti di questo stato delle cose sono proprio le Autocrazie, che praticano una distinta versione autoritaria del capitalismo e vivono l’avanzata nel mondo delle idee liberali alla stregua di una minaccia diretta alla loro stessa sopravvivenza, che ne mette a rischio legittimità e potere. E Noi come intendiamo reagire?

Aggiornato il 21 marzo 2023 alle ore 10:15