Intercettazioni preventive, azione politica e diritto a informare: il caso Cospito

I fatti venuti all’evidenza della cronaca politica in questi ultimi giorni richiedono una pacata, puntuale riflessione giuridica, senza la quale il pericolo di assumere posizioni errate rischia di crescere in modo esponenziale. L’articolo 41 bis del nostro ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, numero 354), nell’attuale versione vigente dal 30 dicembre 2022, prevede che quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del ministro dell’Interno, il ministro della Giustizia ha facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. Ciò può avvenire nei confronti dei detenuti o internati per uno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4 bis della stessa legge, o, comunque, per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva.

La norma prevede che i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione debbano essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati o, comunque, all’interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto e custoditi da reparti specializzati della Polizia penitenziaria, in modo da prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione o ad altre ad essa alleate.

Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, in applicazione del protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti, sottoscritto a New York il 18 dicembre 2002, ratificato e reso esecutivo in Italia ai sensi della legge 9 novembre 2012, numero 195, accede senza limitazione all’interno delle sezioni speciali degli istituti, incontrando detenuti e internati sottoposti al regime speciale, svolgendo con essi colloqui visivi riservati senza limiti di tempo, non sottoposti a controllo auditivo o a videoregistrazione. Pari facoltà hanno i Garanti regionali dei diritti dei detenuti, ma i colloqui visivi in tal caso sono videoregistrati, mentre i Garanti comunali, provinciali o delle aree metropolitane accedono esclusivamente in visita accompagnata agli istituti, al solo fine di verificare le condizioni di vita dei detenuti.

La Corte costituzionale è intervenuta più volte sull’istituto, soggetto a varie interpolazioni normative dal momento della sua introduzione. In particolare, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 41 bis: con sentenza 17-20 giugno 2013, numero 143, limitatamente ai colloqui; con sentenza 26 settembre-12 ottobre 2018, numero 186, limitatamente alla cottura dei cibi; con sentenza 5-22 maggio 2020, numero 97, relativamente alla possibilità di conferire con detenuti; e infine, con sentenza 2 dicembre 2021-24 gennaio 2022, numero 18, è intervenuta sul visto avente a oggetto la corrispondenza intrattenuta con i difensori. Tali interventi sono stati improntati via via a un affievolimento delle asperità dell’Istituto, la cui funzione tuttavia resta decisiva e insostituibile ai fini del contenimento del fenomeno criminale nelle forme sopra descritte, sul presupposto che la carcerazione, attuata nelle forme ordinarie, spesso è strumento preventivo necessario ma insufficiente al raggiungimento dell’obiettivo.

Poste le necessarie (se pur brevi) premesse, va fatta chiarezza sulla tematica delle intercettazioni in carcere. Esse sono ben diverse da quelle previste dal codice di procedura penale, che costituiscono mezzi di ricerca della prova in relazione a un reato, purché inserito tra quelli per cui sono ammesse, sul quale l’autorità giudiziaria sta indagando, essendo stato aperto un fascicolo in Procura, e sempre che vi siano la richiesta del pubblico ministero e l’autorizzazione del giudice per le indagini preliminari. Le intercettazioni dei colloqui di Alfredo Cospito, nel regime di cui all’articolo 41 bis, si inquadrano, invece, tra le intercettazioni preventive. Esse sono state disciplinate per la prima volta dall’articolo 25 ter del decreto legge dell’8 giugno 1992, numero 306. A esse si fa ricorso prima dell’apertura di un fascicolo per le indagini preliminari, quando siano necessarie per prevenire reati di terrorismo interno e internazionale e i reati di criminalità organizzata di cui all’articolo 51, comma 3 bis del codice di procedura penale. Laddove disposte in ambito carcerario, esse hanno la specifica finalità di verificare se il contesto criminogeno, rilevante ai sensi dell’articolo 416 bis del codice penale, in cui i detenuti si muovono, sia ancora attuale. Il che è utile proprio per le decisioni che l’Amministrazione penitenziaria deve assumere sul mantenimento o l’affievolimento della misura esecutiva di carattere più afflittivo nota, appunto, come regime del 41 bis. In ambito carcerario le intercettazioni preventive, in altri termini, rientrano tra i servizi di vigilanza diretti a “cucire addosso al detenuto” la misura in concreto più adeguata a garantire il trattamento penitenziario più idoneo, sempre in omaggio ai principi costituzionali che regolano la finalità della pena, frutto del contemperamento tra esigenze punitive, rieducative e preventive.

Per la giurisprudenza della Corte di Cassazione, tuttavia, è legittima l’utilizzazione delle informazioni assunte nel corso delle intercettazioni preventive, come notizia di reato su cui fondare una richiesta al gip di emissione del decreto autorizzativo di intercettazioni a fini probatori, giacché il divieto di utilizzazione posto dall’articolo 25 ter suddetto concerne la prova del reato, ma non già la funzione di mera fonte della relativa notizia. In ciò – ha precisato la nostra Corte di Cassazione – “non è configurabile un contrasto della norma citata con l’articolo 15 della Costituzione nella parte in cui essa non prevede espressamente anche il divieto di utilizzazione delle suddette intercettazioni preventive quali notizie di reato, atteso che il rispetto dell’articolo 15 della Carta costituzionale è garantito dal fatto che il pubblico ministero, ottenuta la notizia, deve ricercare gli elementi necessari al fine di determinarsi all’esercizio dell’azione penale. E perciò deve, in ogni caso, fare ricorso ad una fonte diversa, ancorché, eventualmente, omologa (sezione 5, sentenza numero 11500 del 27 settembre 2000; sezione 5, sentenza numero 4977 del 18 agosto 1998)”.

Di natura processuale, invece, restano le intercettazioni ambientali tra presenti disposte in carcere dal pubblico ministero (articolo 266 del codice di procedura penale). A tal proposito la Cassazione, ai fini dell’ammissibilità e utilizzabilità delle stesse, ha chiarito che la cella di un carcere non può essere considerata luogo di privata dimora, dovendosi intendere come tale quello adibito all’esercizio di attività che ognuno ha il diritto di svolgere liberamente e legittimamente senza turbativa da parte di estranei, mentre è evidente che la cella è nel possesso e nella completa disponibilità dell’amministrazione penitenziaria, che ne può disporre ad ogni ora del giorno e della notte per qualsiasi necessità (sezione 1, sentenza numero 32851 del 6 maggio 2008). E, anzi, la stessa Corte ha ritenuto manifestamente infondata l’eccezione d’illegittimità costituzionale relativa all’articolo 266, comma secondo, del codice di procedura penale, nella parte in cui consente, diversamente da quanto previsto per la captazione dei colloqui del soggetto in stato di detenzione o custodia domiciliare, l’intercettazione delle conversazioni dei detenuti, anche se non sussiste il fondato timore che all’interno della cella si stia svolgendo un’attività criminosa, in applicazione della norma di cui all’articolo 13 dl numero 152 del 1991 (sezione 6, sentenza numero 36273, del 23 febbraio 2004).

Ciò detto, deve essere precisato che il divieto di pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto previsto dall’articolo 114 del codice di procedura penale, non si applica alle intercettazioni preventive ma solo a quelle di carattere procedimentale inquadrabili tra i mezzi di ricerca della prova. Ciò per il semplice motivo che le intercettazioni preventive non sono coperte dal segreto, mentre lo sono esclusivamente quelle procedimentali ai sensi dell’articolo 329 del codice di procedura penale, per effetto del quale “gli atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”.

In altri termini, in ambito di intercettazioni gli unici atti coperti dal segreto sono solo gli atti di indagine preliminare, vale a dire le intercettazioni procedimentali disposte dal gip in relazione ad un fascicolo di indagine aperto. Ma non gli atti di vigilanza e di intelligence, che hanno un carattere preventivo e possono essere sia portatrici di un contenuto che può fungere da notizia di reato, sia utilizzate dall’amministrazione penitenziaria per calibrare in concreto sul singolo detenuto il trattamento penitenziario più idoneo nella scelta tra regime 41 bis, alta sicurezza o misure più affievolite se non ordinarie. Ciò comporta che le intercettazioni preventive, in quanto non coperte dal segreto, sono divulgabili e pubblicabili.

Tale situazione non cambia, allorquando l’amministrazione penitenziaria abbia limitato – come nel cosiddetto “caso Cospito” – la divulgazione del dato carpito attraverso le intercettazioni preventive, posto che tale limitazione, generalmente apposta con timbri e diciture standard, costituisce un atto amministrativo interno, modificabile, revocabile in ogni tempo e pur sempre comunque totalmente ispirato a logiche di opportunità valutate sotto il profilo della discrezionalità amministrativa. Orbene, è evidente che tale atto dell’organo interno non possa avere un’efficacia giuridica tale da condizionare, limitare o addirittura precludere la scelta politica di un diverso utilizzo del dato medesimo, ivi compresa la sua divulgazione, tanto più in ambito parlamentare, essendo inconcepibile che l’alta discrezionalità che deve guidare l’azione politica governativa possa cedere il passo o risultare subvalente al cospetto di valutazioni, pur esse discrezionali, ma ad un livello ben minore, operate dagli interna corporis. La dicitura “limitata divulgazione” apposta sulla scheda dall’amministrazione penitenziaria, inoltre, esula dalla materia del segreto di Stato e dalle classifiche di segretezza che sono disciplinate dalla legge 3 dell’agosto 2007, numero 124, che ha riformato la struttura e l’organizzazione dei servizi segreti e del segreto di Stato in Italia. L’assenza di un vincolo giuridico di segretezza o di divulgabilità apre, dunque, al pieno dispiegarsi del diritto a informare e a essere informati; del diritto a ricevere informazioni e a ricercare informazioni. Posizioni giuridiche, queste, che taluno riconduce all’articolo 21 della Costituzione, anche sulla base di una costante giurisprudenza costituzionale che ha considerato questo diritto un “risvolto passivo della libertà di manifestazione del pensiero”. E che altri, poi, configurano “come una conseguenza del principio democratico, poiché un regime democratico necessita sempre di una pubblica opinione vigile e informata: esigenza di pubblicità, che, ulteriormente specificantesi nel principio di accesso ai documenti delle pubbliche amministrazioni (legge numero 349/1986; legge numero 241/1990; decreto legislativo 267/2000; legge numero 15/2005), trova un limite soltanto nella tutela del segreto”.

Ma, nel “nostro” caso, il segreto è invocato come una immagine distorta, per sviare l’attenzione – avvalendosi di armamentari giuridici in realtà inesistenti – dall’insopprimibile esigenza di conoscere fatti e situazioni che il cittadino ha diritto di sapere, e che soprattutto la classe politica, in funzione del proprio mandato elettivo, ha il diritto (intersecandosi con il dovere) di riferire.

Aggiornato il 04 febbraio 2023 alle ore 10:45