“Presidenzialismo non fermo, autonomia in piena corsa”: intervista a Santori (Lega)

Un approccio “pragmatico e non ideologico”, senza contrapposizione con gli alleati, con una consapevolezza: non si può cambiare Esecutivo “ogni due anni”. Fabrizio Santori, consigliere capitolino della Lega, parla di presidenzialismo e autonomia. E, sulle colonne de L’Opinione, chiarisce: “La valorizzazione e l’ampliamento delle autonomie regionali è per noi un discorso molto pratico, molto tecnico, urgente”.

Presidenzialismo e autonomia: riuscirà la coalizione a non litigare?

Si tratta di un problema secondario, e tra l’altro presunto, poiché connesso unicamente a tempistiche e priorità. Ciò che teniamo sott’occhio, ora che si è finalmente superato il disinteresse che ha caratterizzato i precedenti governi sul tema, non è il “se” ma il “quando”. Inoltre, avendo noi sull’autonomia un approccio pragmatico e non ideologico, sono convinto che non si arriverà a nessuna contrapposizione con gli alleati. Dico questo perché vedo, nella sostanza, maggiori punti in comune rispetto a distanze che per ora risultano solo ipotetiche. Non siamo contrari al presidenzialismo o a una forma di semipresidenzialismo. Siamo anche noi consapevoli, così come sottolineato dalle parole di Giorgia Meloni, che non si può continuare a cambiar Governo ogni due anni: questo mina la nostra credibilità in ambito internazionale e allontana i cittadini dall’individuazione delle effettive responsabilità di governo. Per questo, siamo altresì d’accordo sulla scelta di un sistema che rafforzi il legame tra eletto ed elettore.

A tal proposito la Lega spinge per l’autonomia: è solo un discorso elettorale, viste le imminenti regionali, o c’è altro?

Direi proprio di no, la valorizzazione e l’ampliamento delle autonomie regionali è per noi un discorso molto pratico, molto tecnico, urgente. Non va, al contrario di quanto vuol fare credere la grossolana propaganda della sinistra, in una direzione anti-europeista o, per usare un termine altrettanto abusato, “sovranista”. Qualche esempio: fin dall’inizio della creazione dei Fondi strutturali europei, il Fondo europeo di sviluppo regionale è del 1975, la stessa ufficialità comunitaria ha sempre parlato di “Grandi Regioni d’Europa” come recettori degli aiuti comunitari. Il problema che abbiamo regolarmente individuato è la discrepanza tra il valore effettivo, o quantomeno la potenzialità delle nostre Regioni, e la limitata disponibilità di strumenti normativi, statutari e fiscali per utilizzare a pieno tali fondi e, soprattutto, operare all’unisono con le altre “grandi regioni d’Europa”. Regioni che godono, nella quasi totalità, di una adeguata autonomia, ma soprattutto di un’autonomia amministrativa parametrata ai dettami comunitari. Un “case study” significativo: Bruxelles incentiva, da anni, attraverso “best practice” fornite da singole Regioni europee o da euro-progetti in partenariato ai quali accedono più di una nostra Amministrazione periferica, l’accelerazione del processo di gestione ottimale dei rifiuti in un’ottica di riciclo e “green economy”, in sostanza trasformando il più possibile i nostri scarti, ad esempio gli inerti, nelle cosiddette “materie prime seconde”. Risultato: abbiamo sinora potuto rispondere solo con interminabili decreti attuativi di principio (“end of waste”) o, a livello locale, con timide dichiarazioni di intenti o al massimo leggine. O, peggio, con i famigerati piani di gestione, che si caratterizzavano per i loro voli pindarici a beneficio dello status quo. Tuttavia, confrontati con le realtà di Regioni virtuose olandesi, tedesche, spagnole o francesi (in quest’ultimo caso parliamo di Amministrazioni periferiche dello Stato più centralizzato d’Europa), i nostri attori regionali hanno scoperto, semplicemente, di non avere simili strumenti per legiferare ed agire in maniera efficace su una materia che, soprattutto a livello locale, richiede decisioni rapide e mirate. Strumenti gestionali, amministrativi e fiscali dei quali Bruxelles ci chiede insistentemente di dotarci.

Mi permetta ancora qualche esempio sul perché siamo ancora alla finestra per quel che concerne la nostra urgente necessità di un’autonomia gestionale e fiscale rispetto al resto dei Paesi europei. Tratteggerò, brevemente due esempi, tra l’altro entrambi di moderata intensità rispetto a un’idea di federalismo pieno.

Il primo è quello della Germania, dove abbiamo notoriamente un federalismo ben inquadrato. I 16 Länder sono i componenti della Repubblica federale di Germania: si tratta di Stati federati che hanno poteri delegati allo Stato federale, rispetto ai quali i poteri dello Stato federale devono essere esplicitamente conferiti dalla Costituzione. I Länder hanno quindi enormi responsabilità: istruzione, ordine pubblico, salute. Hanno un proprio Governo, modellato sull’Esecutivo federale così come delle Costituzioni proprie. Il loro peso è ulteriormente rafforzato dal Bundesrat (Consiglio federale) presso la Camera a Berlino, dove il voto è effettuato dal Land, non da un rappresentante individuale. La Costituzione/Legge fondamentale prevede che, in diversi settori, comprese le questioni finanziarie, l’accordo del Bundesrat deve essere obbligatorio. Gli Stati federati, quindi, hanno un budget notevolissimo, superiore a quello dello Stato federale, e spesso la spesa è risultata anch’essa superiore di qualche decina di miliardi rispetto a quella di Berlino. Ciò si traduce in un grosso potere economico e finanziario degli Stati tedeschi, potere che non è dovuto a una totale autonomia fiscale, ma a una manciata di tasse essenziali e con un’aliquota credibile, a favore degli enti locali.

Le tasse riscosse dalle Amministrazioni fiscali dei Länder sono poi distribuite a livello federale tra i Comuni, lo Stato federale e gli Stati federati. La ripartizione tra i Länder dipende anzitutto dalla percentuale delle entrate da essi riscosse. A questo si aggiunge, tuttavia, una sorta di meccanismo di equalizzazione (Finanzausgleich) per compensare, moderatamente, la differenza tra Stati ricchi e poveri. Il federalismo tedesco, considerato un federalismo unitario, pur incoraggiando una certa concorrenza tra i Länder, lo fa in maniera virtuosa, producendo un effetto volano. Pertanto, l’effettiva autonomia finanziaria è automaticamente generata da grosse competenze locali e da mezzi notevoli che producono ricchezza mirata e frenano gli sprechi.

In Spagna abbiamo un sistema flessibile, non divisorio ed efficace. Come noto, la Spagna del 1978 usciva da una lunga e ingombrante tradizione di centralizzazione, ma la nuova Costituzione di quell’anno permise un grande decentramento. L’impostazione rimane, formalmente, non federale. L’articolo 148.1 della Costituzione demanda ben 22 poteri espliciti alle Comunità autonome (Ca). Il resto delle competenze rientra in quelle dello Stato centrale che, tuttavia, ed è questo uno spunto molto interessante, può convenire, all’occorrenza e ad eccezione di alcuni settori, tra quali ovviamente la giustizia, nel demandare alcuni poteri alle autorità locali, sia stabilendo norme di base per la legislazione regionale (le cosiddette competenze concorrenti), sia lasciando l’applicazione delle leggi nazionali alle autorità locali (le cosiddette competenze condivise). Le 17 Comunità autonome (più le due città autonome di Ceuta e Melilla) godono ciascuna di uno “status” che è oggetto di negoziati con lo Stato centrale, al fine di trasferire alcuni poteri dallo Stato. Il potenziale di autonomia regionale è quindi molto variegato, direi quasi una sorta di kit sul quale si può agire all’occorrenza. Il sistema spagnolo si differenzia di molto, in quanto ad autonomia gestionale e finanziaria, da quello italiano e da altri sistemi europei. In termini di finanziamento, infatti, la Spagna gode di due grandi regimi: il sistema “comune” e quello “forale”, questo sinonimo di autonomia quasi totale seppur riservato solo a Paesi Baschi e Navarra. La Catalogna, dove si ritiene che il deficit fiscale sia il più alto d’Europa, ovviamente vorrebbe far parte dell’esclusivissimo club del sistema “forale”. Le Ca che riscuotono l’imposta rimettono allo Stato, successivamente, una quota precedentemente negoziata. Nello specifico, le competenze fiscali delle Ca vertono su imposte di grosso impatto politico per il cittadino quali, ad esempio, le successioni e le tasse sul patrimonio, imposte sulle quali le Ca possono legiferare sino all’eventuale azzeramento. Madrid concede alle Regioni o Ca il 50 per cento della riscossione su Iva e Irpef. Seppur meno accentuato rispetto alla Germania, esiste tuttavia un meccanismo, tramite un fondo centrale, per attenuare la sperequazione tra le varie Regioni, dove convergeranno parte dei tributi incamerati. Un’ulteriore redistribuzione di quanto ottenuto centralmente andrà, tuttavia, a premiare le Regioni più virtuose, tramite un meccanismo paragonabile a quello comunitario della premialità sulla spesa connessa ai fondi comunitari. In pratica, un sistema di finanziamento vincolato al gettito fiscale. Le Regioni possono anche ricorrere all’indebitamento, ma il loro deficit pubblico è teoricamente inquadrato.

Per quale motivo Madrid accetta, anzi vede addirittura di buon occhio, un grado così alto di autonomia, in una terra con una così forte propensione al regionalismo politico e culturale che in passato, spesso, si è esplicitato anche in modo violento? E ancora, perché risulterebbe arduo scovare un “think tank” dedito alla contestazione di tale sistema? Semplicemente, perché la “governance” demandata al livello locale di una lunga serie di servizi, di carattere essenziale e, a oggi, inimmaginabili per l’Italia, risulta ben gestita e gradita dai cittadini. E, pertanto, Madrid è ben lieta di poter garantire, seppur indirettamente, a questi ultimi una buona sanità, una buona istruzione, strutture moderne e, nel contempo, alleggerirsi di qualche responsabilità. La Spagna, grazie ai due binari di autonomia delle sue Regioni, è risultata pienamente virtuosa nella gestione dei progetti infrastrutturali. Gli imprenditori spagnoli, come constatiamo spesso negli euro-progetti dei quali, come Regioni italiane, siamo spesso partner, sono vicini come tecnici al potere decisionale locale. I politici sono concretamente sensibili per tutta la durata del loro mandato, e non solo prima, alle istanze degli stakeholder e in particolare alle imprese locali che, a loro volta, grazie alla creazione di posti di lavoro, alleggeriscono di molto le incombenze della Pubblica amministrazione se non, come accade spesso, ne finanziano del tutto i servizi.

Ultimo aspetto, per noi decisivo e che appare dal paradigma spagnolo, è la valorizzazione massima dell’internazionalizzazione e la caccia fruttuosa agli investimenti esteri. Fenomeno tutt’ora sconosciuto in alcune, troppe parti del nostro territorio. Per attrarre investimenti esteri abbiamo notato che Regioni quali ad esempio la stessa Andalusia, tra le meno opulente della nazione, sfoggia dei biglietti da visita decisamente di appeal quali ottime infrastrutture, burocrazia di tipo minimalista, servizi pubblici di livello nord-europeo, disponibilità di spazi non vincolati e soprattutto tassazione estremamente attraente. Tutti “fringe benefit” immediati e duraturi che, almeno in Europa occidentale, mettono in ombra, grazie alla loro concretezza, la presunta, spesso non verificabile e altrettanto spesso ambigua, chimera del “basso costo del lavoro” che viene a volte goffamente pubblicizzato dagli stati centrali. Questi sono parte dei nostri intenti, rispecchiano il nostro approccio e rappresentano al meglio il bagaglio tecnico da mettere a frutto. Ribadisco il problema che andremo a risolvere con l’autonomia: le nostre Regioni hanno a oggi, pressoché sempre, competenze e concretezza maggiori rispetto a quelle dell’Amministrazione centrale, la disponibilità di mezzi è insufficiente o variabile ma, paradossalmente, si tratta di fattori ininfluenti visto che non abbiamo l’autonomia per agire.

Possiamo ancora parlare di semplice discorso pre-elettorale? C’è ancora qualcuno, tra i nostri detrattori da bar dello sport che potrebbe fantasticare sul presunto sogno del “tutto e subito” sentito magari dalle parti di via Bellerio? Direi proprio di no! Se non è un “discorso”, potrebbe trattarsi magari di una “promessa pre-elettorale”? Beh, direi decisamente di sì, visto che abbiamo già iniziato a concretizzarla. Palazzo Chigi sta evidentemente studiando il testo del “Progetto Calderoli” per la cosiddetta autonomia differenziata, ma non pretendiamo che sia approvato prima del 12 febbraio. I punti cruciali sono il ruolo del parlamento e soprattutto la definizione dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni), che rappresentano un’operazione di chiarezza senza precedenti nel recente panorama di formazione normativa italiana, una forma di chiarezza che magari non ci consentirono di inserire già all’indomani delle Legge sul federalismo fiscale del 2009: ma da allora non ci siamo fermati.

In questo quadro, sul tema dei poteri speciali per la città di Roma: sì, no e perché?

Le ricordo che i poteri speciali per Roma Capitale, malgrado il simbolismo, per altro condivisibile, che vi attribuisce storicamente Fratelli d’Italia, vertono in sostanza sulla creazione di una grande Regione in termini di competenze. Grand Paris o Greater London si distinsero, per delle attribuzioni di competenze guadagnate con atti normativi, nel secondo esempio tramite un referendum popolare ma entrambi, soprattutto Londra, si sono presto trasformati in volani economici. Finché siamo sul discorso tecnico abbiamo più facilità a dialogare ma semplicemente perché siamo un partito pragmatico. Roberto Calderoli è ministro della Repubblica a Roma, è d’accordo sul progetto. Si sta lavorando sui Lep e sul criterio di attribuzione delle risorse. Dunque, è evidente che lo studio di quelle relative a Roma non passa certo in secondo piano. Tuttavia, vorrei anche ricordare che il nostro progetto sull’autonomia è qualcosa di rivoluzionario, e lo è dal punto di vista soprattutto economico, che contaminerebbe del tutto Roma, spazzando via una mentalità di un passato legato solo alla gestione di obiettivi contingenti, se non emergenziali, che ha caratterizzato la Capitale. Nel concerto dell’autonomia ci viene naturale pensare a Roma e, non dimentichiamolo, al Mezzogiorno. Pertanto, la risposta è sì, ma di pari passo con l’autonomia, anche perché si tratta, tecnicamente, dello stesso discorso e della stessa esigenza pratica.

Dall’ultimo vertice di maggioranza è stato invocato l’equilibrio. Come si riuscirà a mantenere tranquille le frange più “calde”?

Sarà un processo naturale quando la tempistica e le priorità batteranno cassa, riequilibrando il tutto. Stiamo parlando di autonomia e maggiore governabilità (presidenzialismo), pertanto le istanze di ciò che lei chiama “frange più calde” non si differenziano sostanzialmente da quelle più fredde. Il discorso, inoltre, è entrato nella fase tecnica. I nostri tecnici sono spesso comuni e si capiscono benissimo tra di loro.

In questa lotta di pesi e contrappesi, chi ha più da perdere tra le forze di Governo?

Teoricamente tutti, perché si perderebbe tempo. Nella sostanza ipotizzo nessuno, perché gli intenti sono comuni e la nostra percezione delle necessità dei cittadini e del Paese è la stessa di quella dei nostri alleati. Dunque, parliamo, anche in questo caso, di mere ipotesi di scuola.

Oggettivamente, qual è la tempistica per la conclusione dei due iter?

La ringrazio per la domanda, visto che va diritto al cuore del problema: la tempistica. Parliamo di presidenzialismo, ovvero di un obiettivo dettato dalla necessità di stabilità che si concretizzerebbe con un vincitore delle elezioni in carica per cinque anni, sufficienti a realizzare il progetto promesso agli elettori. Il programma in quindici punti che ha portato Giorgia Merloni alla presidenza del Consiglio prevede l’elezione di un Presidente della Repubblica eletto a suffragio universale, dunque, un sistema alla francese e una rottura con la nostra tradizione costituzionale in vigore dal 1948. Fin qui tutto bene in quanto a intenti condivisi anche dal nostro partito; tuttavia, soffermiamoci un attimo sulla fonte primaria: il modello francese.

Il sistema concepito all’epoca dal generale Charles de Gaulle conferisce, senza alcun dubbio, una incontestabile autorità all’Esecutivo. Si trattò, nel 1958, con l’avvento della Quinta Repubblica, di fornire una legittimità nettamente superiore rispetto a quella dei presidenti della Terza o Quarta Repubblica, che venivano designati con i voti delle due assemblee e che non erano stati in grado di portare fuori il Paese da gravi crisi endogene come la guerra d’Algeria. Tuttavia, se proviamo a fotografare un attimo l’evolversi del semi-presidenzialismo alla francese, da cui stiamo prendendo ispirazione, non possiamo fare a meno di constatare il progressivo erodersi del consenso al modello transalpino, un erodersi cadenzato dalla crescita del tasso di astensionismo: dal 15,2 per cento del 1965 al 23 per cento delle ultime Presidenziali. Considerando che Emmanuel Macron ha aggregato un imbarazzante 27,8 per cento dei voti al primo turno paragonato al 44,6 per cento di de Gaulle nel 1965 (che tra l’altro fu ugualmente fonte di momentanea preoccupazione da parte dello stesso Generale), possiamo ipotizzare che la legittimità del presidente francese, e dunque dell’Esecutivo, si basi su un risicato quarto dell’intero elettorato. Se poi analizziamo, a mo’ di fonte secondaria, anche i consensi tramite sondaggi, scopriamo che il presidente francese, con il suo 36 per cento di gradimento, si vede superato anche dal suo primo ministro con il 41 per cento. Lo storico francese Jean Garrigues, esperto di Dottrine politiche, ha dovuto evidenziare con un certo stupore che, rispetto all’attuale sistema, i vituperati presidenti della Terza e Quarta Repubblica, sprezzantemente liquidati da de Gaulle, nel 1965, con una famosa frase il cui concetto potrebbe più o meno essere tradotto con “sono già pronti, per loro, i crisantemi”, in realtà erano molto più popolari e amati di quelli attuali. Si era anche pensato che il fatto di avere invertito dal 2002 la data delle elezioni presidenziali con quelle legislative, che ora sono in coda a quelle presidenziali, avrebbe fornito al Presidente della Repubblica una sua maggioranza più coesa all’interno dell’Assemblea Nazionale e, soprattutto, avrebbe arginato la delegittimazione della sua figura. Il risultato è stato l’opposto di quello auspicato, con il presidente che ha perso la sua funzione comunque super partes, ha visto sminuire la possibilità di governare a lungo termine e si è trasformato nel capo di una maggioranza parlamentare pletorica, sovraesposto in una sorta di mischia mediatica sul quale convergono tutte le contestazioni e gli odi della società francese.

Per assurdo, e contro il volere degli strateghi dell’Eliseo, le ultime elezioni legislative, al contrario di quelle del 2017, hanno dato vita a un’opposizione reale che ha rotto la supremazia presidenzialista. La risultante convivenza forzata tra un presidente fragile e un’assemblea instabile non è certo ciò che auspicava il generale de Gaulle con il suo modello semipresidenziale. Addirittura, pur con il suo caos, quest’equilibro inaspettato ha parzialmente restaurato l’immagine della vita democratica in Francia.

È nostro parere, anche alla luce di quanto osservato presso i nostri vicini storici, che andrebbero analizzati e accuratamente simulati i possibili risultati perversi del passaggio da un sistema parlamentare a uno presidenziale come il rischio di “iper-presidenzialismo”, in Francia “macronismo”. Inoltre, sarebbe opportuno optare per un mandato di sei o sette anni invece che di cinque, per attenuare la tensione politica, o magari si rischierebbe di accentuarla? E le elezioni politiche quando? A metà mandato o subito dopo le presidenziali come in Francia. Presso i nostri cugini d’Oltralpe il sistema presidenziale è fonte di dibattito tra le tutte le forze politiche. Si ipotizza la necessità di un ritorno alle origini del 1958, ovvero una divisione netta e ben delimitata delle funzioni tra un Capo dello Stato, in qualche modo padre della nazione, e un premier, capo della maggioranza parlamentare, che governi senza essere un mero collaboratore del presidente come invece sta accadendo. Soprattutto, si discute su un sistema imperfetto, lontano, nella pratica, dalla originaria concezione di un presidente che si concentri unicamente sulla politica estera e sulla difesa, lontano dalle zuffe mediatiche, dai sussulti dell’immediato e dai dettagli, e sempre in grado di assumere il ruolo di arbitro. In pratica, qui da noi sarebbe da evitare, vista l’esperienza francese e soprattutto il malcontento generato in un elettorato simile al nostro, con il concreto rischio di effetti perversi.

Dunque, materia non facile, tempi dell’iter di emendamenti costituzionale già di per sé più lunghi rispetto a quelli richiesti per l’autonomia. Inoltre, pur rispettando i termini canonici delle quattro fasi ipotizzate dai nostri costituzionalisti, dobbiamo, a costo di risultare ripetitivi, ribadire che l’esperienza francese insegna ancora molto. Parigi ha visto il suo testo costituzionale emendato dal 1958 al 2008 e, appunto, in quell’anno, si è ancora dovuto intervenire sulla costituzione escludendo i tre mandati successivi. Tuttavia, il semplice paletto rappresentato dal termine “successivi” non servirà, con ogni probabilità, a frenare il giovane Emmanuel Macron, presidente oramai scollegato da un elettorato scontento e del tutto fratturato, dal ripresentarsi nel 2032, in uno scenario di instabilità.

Sicuramente, non vogliamo tutto questo, sicuramente non lo vogliono i nostri alleati, con assoluta certezza non lo accetterebbero gli italiani. Soprattutto, non vogliamo che un iter legislativo necessario a conseguire un obiettivo giusto anche per noi, il presidenzialismo, da condividere, per fortuna, con un forte consenso da parte degli attori politici, trascini nelle sue prevedibili sabbie mobili una riforma, quella dell’autonomia, che per la sua natura tecnica, per le sfide se non per le emergenze economiche che deve risolvere subito e per la inderogabile necessità di ottemperare ai dettami comunitari, non può rischiare di finire in stallo.

Sappiamo con certezza che per i costituzionalisti del nostro premier il presidenzialismo non è certo fermo ai blocchi di partenza. Tuttavia, ricordiamoci che l’autonomia è già in piena corsa.

Aggiornato il 27 gennaio 2023 alle ore 13:09