La riforma di Nordio e i cardini liberali

Gli ultimi trent’anni della vita politico-istituzionale italiana sono stati caratterizzati – e viziati – da una confusione e un conflitto senza precedenti per il mondo occidentale e liberal-democratico del Dopoguerra: quello tra i poteri politici (esecutivo e legislativo) e il potere giudiziario. La classica triade, che garantiva il reciproco controllo e il cosiddetto equilibrio dei poteri in Italia, non è più visibilmente marcata, al punto di parlare di un “Montesquieu tradito”, come il 12 maggio 2020 apparve nel titolo di una intervista a Sabino Cassese sul Foglio.

L’intervista partiva da una analisi sulla “magistratizzazione” del ministero della Giustizia che, secondo l’autorevole giurista, è uno dei tanti aspetti della confusione tra i poteri. In sintesi, fra le altre cose, Cassese disse che “c’è un groviglio tra politica e giustizia” e che “la Costituzione divide i poteri e assicura lindipendenza della Giustizia mediante il Csm (anche se i magistrati ne hanno fatto un pessimo uso)”. E ancora che “ne deriva un generale squilibrio tra poteri”, per concludere con la domanda: “Che ne penserebbe Montesquieu, se fosse tra di noi?”.

Gli ultimi trent’anni ci portano, naturalmente, al 1992/93 e a “Mani Pulite”, che segna l’avvio di una innegabile deriva politica, economica e istituzionale. Una china, lenta e inesorabile, contrassegnata dall’intervento continuo che la Magistratura ha compiuto nello spazio politico e che ci ha condotti alla profondissima crisi attuale, che vede il ruolo dello Stato, la tenuta dei conti pubblici, la sostenibilità del debito, le condizioni economiche generali e la salute sociale del Paese, tutti esposti a rischi e pericoli che sono oramai palesi.

Servendoci di un modello fenomenologico, e del cosiddetto individualismo metodologico, isoliamo un amministratore pubblico, nella fattispecie un sindaco e un pubblico ministero (pm) nei due momenti tipici: la firma di un atto pubblico e l’obbligatorietà dell’azione penale. Sorretto dall’assenza di criteri di opportunità nell’esercizio dell’azione penale – che pertanto risulta discrezionale – e con l’ausilio di intercettazioni, dall’uso del tutto illimitato, in quanto nelle conversazioni telefoniche e ambientali è possibile rintracciare reati di ogni tipo, commessi da chiunque, al nostro pm basterà prendere nota di una conversazione nella quale Tizio riferisce a Caio che Sempronio, sindaco della città di Quarto, firmerà presto a favore di Quinto l’affidamento di un’attività, discendente dal frazionamento di una gara d’appalto, per iscrivere Sempronio nel registro degli indagati. Così, sostenuto dal codice penale, dove risiedono fattispecie di reati assai evanescenti come l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze, una volta apposta la firma dell’affidamento, il pm bloccherà senza indugio ogni attività di Sempronio, oltre a fermare sine die il procedere dell’appalto e del servizio pubblico ad esso connesso. Il giorno dopo, Sempronio – grazie alla pubblicazione tempestiva dell’intercettazione sui giornali – sarà trasformato in un politico corrotto, e dal giorno seguente la sua vita politica potrebbe interrompersi o anche finire per sempre. Si tralasciano poi le conseguenze esistenziali di Sempronio. Tutto questo avviene grazie alla permeabilità di certi uffici giudiziari, che non consentono un efficace controllo sulla pubblicazione delle intercettazioni, ma anzi selezionano accuratamente ciò che viene fatto trapelare e ciò che viene coperto dal segreto d’ufficio.

Si è qui usato, dunque, un utile espediente narrativo, per mostrare con grande evidenza come nell’ordinamento giuridico vigente in Italia vi sia un inaccettabile e incontrastato dominus. Il pubblico ministero dirige, infatti, le attività investigative e svolge in prima persona l’istruttoria. Con il decreto 106 del 2006, infatti, il pm ha assunto la responsabilità della gestione dell’ufficio, assicura l’esercizio corretto dell’azione penale, il rispetto del giusto processo, l’ottimale gestione della polizia giudiziaria e delle risorse, e, in via complementare, spetta solo a lui il rapporto con gli organi di informazione.

Questa sintesi sembra utile per lo svolgimento di una disamina della riforma annunciata dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nonostante si continui a pensare che la grande maggioranza dei pm, proprio perché coscienti di godere di questo ruolo praticamente illimitato, siano in grado di evitare ogni abuso. In Italia ci sono infatti circa 10mila magistrati. E in questi decenni quelli che hanno fatto parlare di loro, contrassegnando le cronache delle testate giornalistiche più “attente” alle questioni giuridiche e processuali, non saranno stati neanche un centinaio. Tuttavia, il pubblico ministero è innegabilmente diventato un vero e proprio censore della classe politica e amministrativa, oltre a rappresentare un reale ostacolo per maggioranze di Governo, nazionali o locali, che un giorno volessero, inaspettatamente e improvvisamente, ritornare efficienti e capaci di cambiamenti radicali nella gestione della cosa pubblica.

Secondo il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, la paura della firma, che caratterizza quest’epoca politico-amministrativa, “genera provvedimenti meno coraggiosi e utili, quando non li paralizza del tutto, con il risultato di un settore pubblico che non riesce a rispondere alle aspettative del privato”. E secondo il ministro, infatti, i ritardi provocati da questa paura “ci costano fino a due punti di Pil”. Va detto che ogni apparato pubblico si regge proprio grazie al potere di “firmare atti” perfettamente legali, atti garantiti o da un ruolo di pubblico ufficiale nella Pubblica amministrazione, o da una elezione democratica ai pubblici uffici.

Infine, nell’operosità che lo contraddistingue, e forte del ruolo dominante e della visibilità ottenuta da un vasto programma di processi istruiti in serie – spesso a mero beneficio di una classe mediatica oramai da decenni su una china che ha scelto soprattutto strade scandalistiche e gossippare – appare del tutto insostenibile che un qualunque pm italiano percorra, spesso più velocemente di chi ha l’arduo e oneroso compito di condannare o assolvere, la stessa carriera dei giudici giudicanti. E nonostante, sempre nel 2006, si sia cercato di mettere dei paletti a questa confusione, per ben quattro volte nella sua vita professionale qualunque giudice potrà passare da un ruolo all’altro.

In conclusione, si possono leggere i quattro punti di Carlo Nordio come dei cardini liberali, qualora si facessero davvero strada. Se, infatti, la parte civile della riforma sull’obbligatorietà dell’azione penale già rientra nelle priorità del Pnrr allo scopo di velocizzare la durata dei processi, l’estensione anche agli aspetti penali – attraverso l’introduzione di criteri di priorità e precedenza con logiche selettive, distinguendo le notizie di reato da trattare rispetto a quelle da far andare in prescrizione a causa del sovraccarico giudiziario – contribuirebbe a indirizzare meglio anche i compiti dello Stato.

Così, regolamentare le intercettazioni, punire il loro arbitrario svelamento, ridurre il perimetro di punibilità dell’abuso di ufficio e del traffico di influenze, per “liberare dalla paura della firma” i loro detentori e infine, la sempre rimandata separazione delle carriere dei giudici, risulta essere un programma che non solo ha radici “liberali”, ma pone delle premesse che prefigurano, in ambito giudiziario, l’avvio di uno Stato minimo. Laddove “sminuimento” non è sinonimo di “indebolimento” poiché, citando Antoine Garapon, “una nuova governamentalità ha ben compreso che l’interesse economico le può offrire uno strumento di controllo molto più forte rispetto alla paura o al senso civico, secondo il modello classico della sovranità”. Per dirla diversamente, il pubblico ufficiale dotato di “command and control” deve lasciare nuovamente il posto al “civil servant”.

Aggiornato il 11 gennaio 2023 alle ore 09:57