Leninisti filo-talebanocratici: figli di un Marx che non c’era

A tutto c’è un margine, non a tutto c’è un Marx

Dire Afghanistan oggi può sembrare un ingarbugliato gioco a undici lettere o magari una parolaccia impronunciabile? L’Afghanistan sprofonda nella notte talebanocratica, con conseguenti repressioni delle libertà fondamentali e terrorismi spersonologici; e in Italia c’è chi “saluta e appoggia la conquista di Kabul e del potere politico da parte dei talebani, dopo venti anni di guerriglia”. Così recita, in una sorta di canovaccio leninista disevolutivo, il comunicato dell’Ufficio stampa del Partito Marxista-Leninista italiano (Pmli), il 16 agosto 2021. Qualche mese fa. Saranno leninisti talebanofili, figli di un Marx che non c’èra. Si tratta di un piccolissimo atomo vagante? Sì, il Pmli è un gruppetto ideologico-anacronistico privo di sbocchi immediati nella realtà politica istituzionale, oltre che privo di connessioni ermeneutiche con il divenire delle odierne realtà sociali. La letteratura firmata da quel tipo di leninismo, oggi, se non produce più dittature sovietiche aumenta comunque il rischio del diffondersi d’antagonismi illiberali, basati su illibertari pressappochismi.

La questione afghana è una questione troppo delicata, mai semplice e quindi mai riducibile a tifoserie partitocratiche internazionali. Senza dubbio. Le missioni militari cosiddette “di pace” negli scorsi vent’anni hanno generato disagi e morti tra i civili afghani innocenti, e questo certamente non va bene ed è condannabile. I militari italiani e statunitensi più diligenti ed appassionati, però, hanno anche mantenuto viva la speranza di tante donne afghane: la speranza di non restare vittime in un sistema multi-tribale che aspirava (e aspira) a reprimere i loro diritti, le loro libertà fondamentali. Al di là di ogni ragionevole dubbio sulle clausole militari d’ingaggio o sui moventi economici statunitensi di vent’anni fa, alla presenza militare occidentale in quella terra martoriata molte donne afghane – non tutte – hanno associato la speranza per l’uscita da un’esistenza subalterna e di terrore, priva di futuro. Il fatto che nel 2021 esistano e in questo inizio di 2022 resistano gruppi di donne afghane cicliste, è un esempio plastico di questa concreta speranza, tragicamente spezzata.

Il personale missionario, pur tra gli errori e le superficialità degli Stati occidentali, ha in qualche modo tentato di preservare la popolazione afghana innocente dagli attacchi dell’Isis da un lato e dalla minaccia talebanocratica dall’altro lato. Pur tra varie contraddizioni, insieme agli attacchi sferrati contro le basi del terrorismo nazislamico radicale l’Occidente liberale ha tentato di attaccare un modello oscurantista di società. Se il leninismo vuole la liberazione delle classi lavoratrici subordinate dall’oppressione generata dalle diseguaglianze classiste del capitalismo, appoggiando la guerriglia talebana finisce per appoggiare un’oppressione ancora più intensa, contro le persone in carne e ossa.

Questo leninismo è incurante dei diritti umani, delle libertà individuali basilari, della parità di genere, dei diritti civili e politici che sono l’anticamera dei diritti socioeconomici. Questo leninismo assorbe i diritti della persona in un illiberale modello di Stato egemonico, e li piega faziosamente a un’idea tardo-ideologica d’antimperialismo. Se la presunta civiltà comunista ha il compito di far uscire l’homo oeconomicus dalla condizione di alienazione in cui versa, bisognerebbe procedere per gradi, curando anzitutto la pratica salute dei diritti umani. Se la lotta al tradizionale simbolo del capitalismo mondiale degli scorsi decenni, ossia gli Usa, passa attraverso l’appoggio al Governo di fatto talebanocratico, qualcosa è andato storto nelle considerazioni di questi presunti comunisti. Da un lato, essi auspicano l’uscita dalla barbarie di diseguaglianze e ingiustizie sociali, dall’altro lato appoggiano un sistema di pensiero che schiaccia l’essere umano in una condizione ancor più alienata e retrograda. Delle due, l’una.

I leninisti militanti nel loro comunicato pro-talebanocratico hanno specificato che “naturalmente c’è un abisso tra il Pmli e l’ideologia, la strategia, il programma, i metodi di lotta e la politica antifemminile dei talebani”, e ci mancherebbe altro, altrimenti la loro sarebbe qualificabile come un’associazione terroristica, cosa che il Pmli appunto non è. Il comunicato, cadendo in aperta contraddizione con le basilari acquisizioni dello stesso Umanesimo cinquecentesco (figuriamoci con gli studi engelo-marxiani ottocenteschi), non casualmente contiene una pericolosa specificazione. È stato infatti scritto quanto segue: “Ma ciò non può e non deve costituire un ostacolo all’appoggio militante al Governo antimperialista talebano. Speriamo che questo atteggiamento venga condiviso da tutte le forze antimperialiste italiane”.

A tutto c’è un margine, persino all’idiozia illibertaria, ma non a tutto c’è un Marx pronto a esser messo in facili citazioni estrapolate qua e là. E infatti questa volta le strategie leniniste pro-talebanocratiche appaiono ancor più vuote, orfane di una strategia che possa anche solo lontanamente porsi al servizio funzionale di qualche postumo ideologico di matrice engelo-marxiana.

L’opera di Engels intitolata “L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza”, ma anche la stessa opera di Marx intitolata “Critica al programma di Gotha”, dovrebbero mostrare alle febbrili adesioni talebanocratiche di questi leninisti una possibile via metodologica divergente. La lotta contro l’imperialismo capitalista, nell’ottica socialista teorica pura, è funzionale al raggiungimento di un maggiore benessere e di un più progredito stadio d’umanità sociale, in cui i diritti e le libertà di tutte e tutti dovrebbero essere il punto focale delle organizzazioni umane. Nessuna ortodossia marxiana potrebbe accettare un abominio simile a quello praticato dalle frange radicali dei talebani, collegate al Governo di fatto talebano. Nessuna ortodossia, che abbia come fine il socialismo evolutivo e liberazionista, potrebbe partorire un appoggio ad una talebanocrazia che pratica la Shari’ah.

Il versante leninista del marxismo militante dovrebbe meditare un percorso di auto-sensibilizzazione ai diritti individuali delle persone. Senza il rispetto dei diritti civili, politici, umani non possono aprirsi strade evolutive – né rivoluzionarie né riformiste – per i diritti sociali ed economici. La intersezionalità tra i profili politici, civili e socio-economici nelle battaglie per il cambiamento è un aspetto imprescindibile, se non si vuole scadere nell’indifferenza o nel fungibilista disinteresse verso i diritti essenziali delle persone reali. Lo stesso Karl Marx, nei suoi studi ottocenteschi, aveva immaginato che il superamento del capitalismo su scala globale non avrebbe potuto avvenire in modo opportuno, se non passando da forme di capitalismo evolute e robuste. Sarebbero, quindi, più coerenti con i loro maestri, i neomarxiani della post-contemporaneità, ove si curassero anche dell’ulteriore evoluzione degli attuali stadi capitalistici, parallelamente alla tutela dei diritti inalienabili della persona, in ogni dove. I leninisti che appoggiano la talebanocrazia hanno perso ogni bussola escatologica ed ogni metro assiologico, cadendo in forti contraddizioni, invero poco marxiane. Il leninismo, a differenza dell’ultimo trotzkijsmo martirizzato dallo stalinismo, ha nel proprio bagaglio culturale una preoccupante cultura organicista, anti-personologica, che considera l’individuo come un mezzo e mai come il fine valoriale di ogni ordinamento politico, economico e giuridico.

Gli eterogenei assetti costituzionali dell’Occidente liberal-democratico non possono essere esportati con le guerre, si sa. Nella sua tensione bipolare tra impresarie libertà ed eguaglianze sociali, la democrazia liberal-popolare non è esportabile come una merce: ogni processo evolutivo verso i nuovi diritti e verso le nuove, paritarie, intersezionali liberazioni individuali o comunitarie, richiede coscienza geopolitica autoctona e tempo. Ogni passo sulla via della socializzazione delle speranze e del benessere lavorativo richiede un grande impegno, da parte di chi vuol compiere quel passo più in là. Gli altri Paesi, dall’esterno, possono soltanto avviare percorsi di accompagnamento e di protezione umanitaria. Aspetto non eliminabile dei Paesi terzi è la loro esigenza di lotta per eliminare le basi e le forniture terroristiche internazionali, a dire il vero anche quelle indirettamente provenienti dall’industria pesante degli stessi giri occidentali.

Se la guerra come mezzo di contrasto dell’oscurantismo talebanocratico pone seri dubbi, in quanto troppo cara per le vite e per le economie nazionali delle liberaldemocrazie, l’indifferenza verso i diritti umani degli afghani non è la soluzione. L’indifferenza, oltre a essere anti-etica, potrebbe divenire antitetica alla stessa sicurezza democratica dell’Occidente liberale. La lotta per la democrazia libertaria e per il progresso della condizione delle donne e dei lavoratori sfruttati non può pertanto (mai) dirsi conclusa. In funzione antiterroristica, insieme ai mezzi già esistenti, dovrebbero pesare di più l’Onu e i processi politici federali. Se gli Stati Uniti d’Europa non sono ancora all’orizzonte delle coscienze nazionali nel nostro continente, un esercito eurounionale potrebbe almeno rappresentare una tappa istituzionale utile.

D’altronde l’obiettivo d’amor proprio, per l’Occidente, è curare la propria salute civile con un’Europa più libertaria, democratica e robusta. Così dire “Occidente” a “O” maiuscola non sarà più una parolaccia autocratica per nessuno, in alcun dove; e magari più a Est ci sarà qualcuno pronto a tessere più intime, amorose relazioni intercontinentali.

Aggiornato il 20 gennaio 2022 alle ore 11:15