La legge Severino e la responsabilità degli amministratori locali

nun se sveia più”, diceva già nel lontano 1974 l’ordinario di Procedura civile e poi giudice costituzionale Virgilio Andrioli, nostro compianto maestro alla Sapienza. Nella deprecata letargia è caduto anche il diritto penale, in merito al quale sembra opportuna qualche riflessione, alla vigilia della data del 3 e 4 ottobre prossimi per il voto in numerose Amministrazioni locali; ma in alcune Regioni – soprattutto nel Meridione – alcuni potenziali candidati hanno rinunziato ad entrare nelle liste elettorali, per il timore di finire nel tritacarne mediatico conseguente ad accuse irreali, seguite da procedimenti penali e/o amministrativi privi di fondamento. È generalmente noto che se un comportamento è ritenuto riprovevole o contrastante con i valori assunti come essenziali dalla collettività il Legislatore lo configura come reato, poiché ne consegue l’efficacia deterrente che suole riconoscersi ai massimi livelli nella sanzione penale. Se viceversa il comportamento non desta particolare allarme sociale, può apparire sufficiente la sanzione amministrativa, ferma restando – ovviamente – l’eventualità di una contestuale responsabilità civile e/o disciplinare.

Circoscrivendo il discorso alla relazione tra sanzione penale e sanzione amministrativa, ricordiamo che a seguito della “depenalizzazione” di vari reati minori, venuta incontro all’evoluzione del comune sentire ed alla necessità di perseguire con maggiore celerità ed efficacia i crimini più pericolosi per l’ordinato vivere civile, alcuni illeciti da tempo non costituiscono più reato. Il Codice Rocco, tuttora vigente, nella formulazione degli articoli 1 e 2 del Codice penale così recita: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza, se non nei casi previsti dalla legge”. Ad ulteriore tutela dell’individuo “In bonam partem” interviene altresì l’articolo 14 delle Disposizioni sulla legge in generale, che vieta l’analogia in campo penale, per evitare un’indebita estensione di norme punitive a casi non espressamente contemplati. Tutto quanto si è ritenuto fino ad ora utile di premettere, serve a far luce su alcune incongruenze dovute all’incompleta applicazione dell’invocato principio del “Favor rei”, paradossalmente proprio a quelle sanzioni amministrative che già di per sé sono rivelatrici di una politica di minor rigore punitivo, rispetto alle “Sorelle maggiori” operanti in materia penale. Una prima innovazione venne introdotta dalla Legge 24 novembre 1981, n. 689, che in sede di riordino del sistema penale, provvide ad introdurre il principio di legalità anche per le sanzioni amministrative, disponendo all’articolo 1: “Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative, se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni amministrative, si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati”.

Per un’incomprensibile “svista”, il Legislatore ha purtroppo preso in considerazione solo l’aspetto della irretroattività di una nuova norma incriminatrice, tralasciando quello –altrettanto rilevante – di una nuova norma che abroghi o riduca la portata di una sanzione amministrativa già esistente. A livello più generale, viceversa, nell’interpretazione dell’ articolo 1 della citata Legge n. 689 del 1981, la costante giurisprudenza della Suprema Corte e del Consiglio di Stato ha ritenuto di respingere la tesi che per le sanzioni amministrative, potesse trovare compiuta recezione la regola del “Favor rei”. In conseguenza di siffatta interpretazione limitativa, è venuta a radicarsi acriticamente la tesi giurisprudenziale giusta la quale l’illecito amministrativo resta comunque disciplinato alla legge del tempo del suo verificarsi, con la conseguenza dell’inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole, pure in presenza della fattispecie di illeciti amministrativi derivanti dalla depenalizzazione di pregressi reati. Va da sé che in tal caso si verifica un effetto paradosso: se un dato comportamento, già configurato come reato, in virtù di una legge penale successiva più favorevole, cessa dall’essere tale, viene meno la correlata pena; se, viceversa, il medesimo comportamento sin dall’origine, o in seguito a depenalizzazione per il suo minore disvalore sociale viene configurato come illecito amministrativo, detto comportamento dovrà continuare – incredibilmente – ad essere perseguito!

Detto impianto interpretativo collide con la logica e con il comune sentimento della giustizia, intesa sia in senso sostanziale che formale. La ragione di tale restrittività esegetica è stata fornita dalla Cassazione, in quanto per le norme di carattere sanzionatorio, non è ammessa l’applicazione analogica (articolo 14 preleggi) e, quindi, non si dovrebbero (data la specialità della materia) applicare analogicamente i commi 2 e 3 dell’articolo 2 del codice penale. Osserviamo tuttavia al riguardo, che il divieto dell’analogia riguarda naturalmente le misure afflittive, ma non dovrebbe essere letto come preclusivo di un’analogia in bonam partem. “Ubi eadem legis ratio, ibi eadem legis dispositio” recitava il Digesto millecinquecento anni or sono, costituendo un monumento di razionalità scritta, tanto da aver ritrovato la sua terza giovinezza nella Cina post-maoista, dove – debitamente tradotto – costituisce l’ossatura del diritto privato di quell’immenso Stato. Ma “Nemo propheta in patria”, per cui l’Italia, sotto il profilo in esame, è sì la culla del diritto, ma nel ricordato senso ironico dell’Andrioli. Un’ulteriore materia assai controversa, maggiormente nota al vasto pubblico più per le polemiche politiche che ne sono derivate, che per la “peculiarità” del suo singolare impianto tecnico-giuridico, è quella del Decreto legislativo del 31 dicembre 2012, n. 235 , meglio nota come Legge Severino, giusta la quale – ex articolo 1 – non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per associazione a delinquere, associazione di tipo mafioso, sequestro di persona, reati con finalità di terrorismo; per reati contro la Pubblica Amministrazione, quali peculato, corruzione, concussione; o, in ultimo, per reati dolosi per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni.

Le medesime condizioni ricorrono, ex articolo 4, per l’incandidabilità alla carica di membro del Parlamento Europeo spettante all’Italia; nonché, ex articolo 6, per l’assunzione e lo svolgimento di incarichi di governo nazionale. Per l’incandidabilità alle cariche elettive regionali (articolo 7) ed a quelle degli altri Enti locali territoriali (articolo 10) – vale a dire Comuni, Province e Circoscrizioni – il Legislatore sceglie un elenco in gran parte simile a quello fornito dall’articolo 1, comunque ancorando nuovamente la preclusione in parola ad una sentenza definitiva. Il “cambio di registro” rispetto alle norme di riferimento concernenti il Parlamento nazionale, avviene però con l’articolo 8 in tema di sospensione e decadenza di diritto per incandidabilità per le cariche regionali, ed al successivo articolo 11 per gli amministratori locali, in quanto nelle more processuali dell’accertamento definitivo dei reati indicati all’articolo 7, tutti gli appartenenti a dette categorie restano sospesi in una sorta di limbo, a far data già dalla prima sentenza di condanna, ancorché impugnabile. A giustificazione della retroattività della legge in discorso, taluni esegeti hanno affermato che la decadenza è una sanzione amministrativa e non penale; ma anche volendola così caratterizzare, non può essere disatteso il principio enunciato in via generale dall’articolo 25, comma 2, della Costituzione, giusta il quale nessuno può essere punito se non in base ad una legge antecedente al fatto commesso. Che il principio di tassatività, e quindi di non retroattività, riguardi anche il campo amministrativo, può evincersi altresì dal successivo comma 3, che testualmente recita: “Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”. Dato che le misure di sicurezza sono sanzioni amministrative, bisognerebbe argomentare che la guarentigia costituzionale valga solo per esse, e non pure per le altre sanzioni aventi la medesima natura amministrativa. Ove ciò non bastasse, va rammentato che la Legge Severino deve ottemperare a quanto disposto in via generale dall’articolo 11 delle Disposizioni preliminari alla legge in generale, che testualmente recita: “La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. Osserviamo pertanto in linea di principio che il noto divieto di analogia, ove non si voglia restare ancorati a quello che è stato definito “gretto formalismo”, mira a tutelare l’individuo da restrizioni non testuali e non a privarlo della estensione di guarentigie previste in suo favore in campo penale o amministrativo. Ricordando l’antica affermazione del Digesto “Ubi eadem ratio, ibi eadem dispositio”, nelle more di una riforma legislativa che il Parlamento dovrebbe operare estendendo il “favor rei” a tutti gli illeciti amministrativi, la giurisprudenza potrebbe efficacemente colmare la lacuna, estendendo analogicamente anche ad altri settori il “Favor rei” introdotto in materia valutaria e fiscale.

In merito alla legge Severino, la Corte Costituzionale, con sentenza 20 ottobre 2015, n. 236 , nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 11 della medesima, in merito alla “Sospensione e decadenza di diritto degli amministratori locali in condizione di incandidabilità”, osservò che le misure della incandidabilità, della decadenza e della sospensione non avevano carattere sanzionatorio, dovendosi ritenere conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento. Di fronte a una grave situazione di illegalità nella Pubblica Amministrazione, era giustificata l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica, per evitare un “inquinamento” dell’Amministrazione e per garantire la “credibilità” della stessa presso il pubblico. Non possiamo esimerci dal notare, che ove anche si accettasse la natura di provvedimento cautelare per quello della sospensione dalla carica di amministratore locale, permangono due macroscopici rilievi critici:

1) l’evocata indegnità morale evocata dalla Consulta, così come dal Consiglio di Stato, dovrebbe vieppiù essere ostativa per i membri del Parlamento nazionale, come di quello europeo, essendo essi latori di istanze collettive di livello ben più alto rispetto a quelle di cui sono espressivi gli amministratori degli enti territoriali;

2) la misura cautelare, nel caso di specie, sarebbe comunque anomala, in quanto non prevista tra quelle contemplate nell’elenco contenuto nella parte prima, libro quarto, del Codice di procedura penale, con doveroso carattere di tassatività e di esaustività.

In ultimo, con sentenza  n. 36 del 23 gennaio 2019 la Corte costituzionale, nuovamente chiamata ad esprimersi in merito su alcuni profili di costituzionalità della legge Severino, si è spinta a dichiarare legittima la sospensione di diritto degli amministratori locali, anche in caso di condanne non definitive antecedenti all’elezione! Nella consolidata civiltà del suffragio universale, basta oggi la denunzia capziosa di un avversario politico per avviare un procedimento penale, onde rovinare la reputazione di un candidato alle elezioni amministrative, fintantoché il processo penale non si concluda con l’assoluzione. Ma l’assoluzione – vieppiù con la sciagurata prescrizione senza limiti temporali – potrebbe arrivare “a futura memoria”.

 

 

 

 

Aggiornato il 27 settembre 2021 alle ore 13:35