La democratura: mamma li turchi!

giovedì 15 aprile 2021


Come muore la Democrazia? Per capirlo, occorre tornare a Winston Churchill che, a seguito degli accordi di Monaco, riferendosi alla scelta del suo primo ministro, Neville Chamberlain, disse “potevano scegliere tra il disonore e la guerra, hanno scelto il disonore ed avranno la guerra”. Oggi quell’anatema vale per le democrazie occidentali che hanno dimenticato, per manifesta pusillanimità e vigliaccheria, che la Dea della Libertà ha in una mano il libro e nell’altra la spada, mentre quella delle democrature impugna da un lato l’elsa, e dall’altro serra nel braccio la sfera del potere sul mondo. Ad entrambe, tuttavia, è venuta a mancare la Dea Giustizia, quella dei due piatti della bilancia del dare e dell’avere, che debbono sempre stare sempre in equilibrio.

Da molto tempo, infatti, non è più così. Nello stesso modo in cui si inabissò l’autorità della Roma imperiale, la cui eredità morale, militare, spirituale e intellettuale era stata data in appalto ai comandanti barbari, così l’Occidente ha smesso di combattere in prima persona per i suoi sacri ideali, avendo abbracciato il credo di un progresso tecnologico e pacifico che tutto redime. Così, il suo orizzonte morale è stato in qualche decennio completamente sostituito dall’impulso mercantile e finanziario, per cui il Denaro è divenuto tra l’altro la misura di ogni cosa. Per le democrature (russa e turca, in particolare) e per le autocrazie, invece, la famosa Dea Mammona è solo uno strumento utile per la conquista di territori e del potere in senso classico.

Grazie a una forte iniezione di nazionalismo, queste due recenti versioni del Principe machiavelliano hanno riportato in auge il famoso detto Usa del “the boots on the ground”, equivalente alla versione italica del “chi mena per primo, mena due volte”. Lo si è visto con l’annessione russa della Crimea, preceduta da quella cinese del Tibet e dalla più recente militarizzazione del Mar cinese meridionale, senza che le democrazie del mondo libero facessero militarmente una piega. Identico atteggiamento di pusillanimità è stato adottato nei confronti della Turchia, quando le sue fregate in Mar Egeo rischiarono lo scontro con la Francia, per proteggere i battelli civili turchi alla ricerca di gas e petrolio sui fondali marini greco-ciprioti. Allo stesso modo, non abbiamo battuto ciglio quando la Turchia, nostro alleato della Nato, faceva volare droni armati e impegnava l’esercito turco in scenari lontani del mondo, come l’Azerbaigian e la Siria mentre, come ai bei tempi dell’Impero tardo romano, i suoi mercenari siriani si contrapponevano ai contractor russi per la spartizione delle immense risorse energetiche di una Libia dilaniata dalla guerra civile. Prendiamo il recente martirio della cristianissima Armenia, di nuovo bistrattata dal Governo di Ankara, nella totale indifferenza delle anime belle bruxelloises, e rendiamoci conto che la differenza tra noi e il moderno Princeps è la combattività sul piano della forza armata. Noi siamo Monaco e Yalta; loro il blitzkrieg e la Tavola rotonda di Re Artù, dove le arti della diplomazia (ipocrita e fellona) nulla possono contro il coraggio della spada e la protezione del Santo Graal.

Noi stiamo dando modo a democrature e autocrazie di dimostrare come il ricorso alla forza rappresenti un mezzo assai migliore del dialogo, per venire a capo delle controversie internazionali. In questo, l’ipocrisia e l’inerzia dell’Onu ha davvero del soprannaturale, dato che il più sacro principio dello Statuto delle Nazioni Unite sancisce che gli Stati membri “regolano le loro controversie in modo pacifico, astenendosi dal ricorso alla minaccia e all’impiego della forza”. Regola che, a quanto pare, vale solo per le democrazie dei diritti senza doveri come le nostre.

Nota in proposito Le Figaro: “Una sedia in meno ad Ankara (il famoso “sofàgate” che ha coinvolto Ursula von der Leyen, ndt) ha suscitato molto più sdegno che un anno di violazione dei diritti umani in giro per il mondo (vedi conflitto armeno, ndt) da parte della Turchia”. Sempre il quotidiano conservatore francese, dedicando una sua approfondita inchiesta al conflitto tra l’Armenia cristiana e l’Azerbaigian musulmana appoggiata dalla Turchia, stigmatizzava severamente il comportamento dell’Unione denunciando come “durante quei quaranta giorni di violenti scontri alla frontiera, il Parlamento europeo produceva vuote risoluzioni su: “Uguaglianza di genere nella politica estera e di sicurezza dell'Unione”; “Incidenza del Covid-19 sullo Stato di diritto”; “L’anno europeo delle città più verdi”. Morale: in centinaia di pagine di relazioni votate in questo periodo la questione dell'Armenia non vi compariva nemmeno una sola volta!”.

Noi lasciamo che la forza prevalga sul diritto, quando accettiamo che gli Stati violino le regole fondamentali della civile convivenza, facendo ricorso ad armi proibite e rendendosi responsabili di crimini di guerra da cui traggono benefici strategici a lungo termine”. C’è un però… che fa ben sperare, tuttavia. Ovvero: l’assolutismo del potere, sia nelle moderne democrature che nelle più tradizionali autocrazie alla cinese, si auto-sostenta fino quando vengono mantenute le promesse che fanno da collante tra autocrate e popolo. Se si tratta di spingere sull’identità nazionale, allora Recep Tayyip Erdogan deve dare vigore al suo carattere revanscista, cavalcando militarmente la tigre della guerra civile in Libia e Siria (già province dell’impero ottomano), mentre sproloquia di uscire dalla Convenzione di Montreux del 1936 (che aveva lo scopo di regolamentare la navigazione e il passaggio attraverso lo Stretto dei Dardanelli, il Mar di Marmara ed il Bosforo) per scavare un Canale di Istanbul, in analogia a quello di Suez, che congiunga Mar Nero e Mar di Marmara, in modo da aprire una nuova via d'acqua parallela a quella del Bosforo che avrebbe, pertanto, una fondamentale portata strategica per le marine militari di tutto il mondo.

Vladimir Putin, da buon primo della classe, non è certo da meno di Erdogan con la costruzione (vantata, per il momento) di una nuova “Arma-fine-di-mondo” alla Dottor Stranamore: un siluro atomico, che porta il nome mitologico di Poseidon, in grado di scatenare uno tsunami di fronte alle coste nemiche. Intanto lo Zar, sempre lui, si gode i frutti del famoso “the boots on the ground” sia in Siria che in Libia. Nel primo caso, tenendo in vita un regime spietato che, per la sua sopravvivenza, ha causato decine di milioni di profughi, mezzo milione di vittime civili e la devastazione materiale ed economica del proprio Paese.

In Libia, invece, sono bastati poche migliaia di mercenari (in modo da evitare gli spiacevoli contraccolpi di immagine delle salme di soldati russi avvolti in sacchi neri di plastica) e la supremazia aerea per dettare legge su metà del Paese, in condominio con il rivale-alleato di sempre: la Turchia di Erdogan. E, noi occidentali ed europei come intendiamo opporci a tutto questo? A parole. Come sempre.


di Maurizio Guaitoli