La questione femminile nel Pd

Nella tradizione comunista bisognerebbe risalire alla famosa definizione di Vladimir Ilic – detto Lenin (dal fiume russo Lena) – che la rivoluzione avrebbe ridotto lo Stato borghese alla possibilità di governo per una cuoca. Una cuoca al governo stava a significare che anche una donna, quindi elemento inferiore nella scala di valori, poteva portare egregiamente avanti nella conduzione degli affari amministrativi la cosa pubblica, ma emendata dalla rivoluzione bolscevica.

La cosa sfuggì in questa accezione ad Alexandra Kollontaj, che assunse il ruolo di eroina dell’emancipazione femminile, ma che nel contesto del potere comunista contava poco o niente, come poi avvenne sempre in seguito. Quando una donna si distingueva per intelligenza, carisma, determinazione, non veniva classificata come una normale dirigente, al pari dei colleghi maschi, ma diveniva “pasionaria”; tanto per fare un esempio, come Dolores Ibárruri della Guerra civile spagnola.

La politica, da che mondo è mondo, è al maschile, ma non per un presupposto schiacciamento della donna, ma per una fisiologica divisione dei “ruoli umani” in cui il maschio si assume e domina i valori fondamentali della specie, la sua riproduzione e difesa, e quindi la fecondazione e la guerra. L’archeo-sociologia ci dice che, finché non si affermò con chiarezza che la donna era fecondata dall’uomo e che il cavallo non divenne parte essenziale della strategia bellica, vigeva un sistema matriarcale in cui la donna magicamente figliava ed organizzava la difesa della prole. Quindi governava per le sue prerogative specifiche le società primitive, che si stavano organizzando, evolvendosi.

A sinistra si capì da subito che c’era una prateria di consenso da conquistare nel genere femminile, tra l’altro maggioritario in ogni corpo elettorale, mentre a destra la gerarchia netta dell’uomo guerriero e della donna addetta al suo “riposo” funzionava semplicemente per induzione di voto. Ma è la donna che, nella sua secolare sedimentazione culturale ed emozionale, rifiuta la guerra che può uccidere il frutto del suo ventre, e quindi la politica che è una guerra condotta con altri mezzi, ed entra in una sorta di deriva insignificante ad evitare ogni suo pieno coinvolgimento; come se altre fossero le questioni essenziali.

La competizione tra Debora Serracchiani e Marianna Madia cosa è, se non un episodio marginale ed artefatto nella dinamica dei generi e dei boss del Partito Democratico, ma così anche negli altri partiti? Enrico Letta non faccia il furbo con espedienti d’immagine, i problemi sono altri.

Aggiornato il 01 aprile 2021 alle ore 11:20