I miserabili

Se c’è una cosa positiva di questi tempi, essa risiede nel fatto che la situazione emergenziale ci abbia sbattuto in faccia le nostre pubbliche miserie, mostrandoci senza ombre la cialtronaggine che prima si annidava nelle pieghe di una politica narrata, più che esercitata concretamente per il bene comune. E allora, quando i nodi sono giunti al pettine, chi un minuto prima gonfiava il petto sentendosi classe dirigente, ci ha messo un nano-secondo ad accucciarsi impaurito sotto i soliti tecnici.

Il Governo dei migliori è nato così, generato cioè dalla paura della politica di mostrare fino in fondo quanto sia piena zeppa di buoni a nulla. Però l’irrefrenabile bramosia di occupare poltrone è sgorgata comunque, sospinta dall’esercito di peones che il povero Mario Draghi si è visto costretto a imbarcare al governo, perché altrimenti il sistema lo avrebbe ostacolato. Sicuramente l’attuale esecutivo, per contegno e serietà, è un lontano parente dei giallorossi ma deve ancora dimostrare di essere realmente “il Governo dei migliori”. Perché la politica è fatta anche di discontinuità (ne vediamo pochina) e di messaggi: se arrivano “i migliori” e come primo atto appaltano la redazione del Recovery plan a una società di consulenza, manco fossero dei Cinque Stelle qualsiasi, che senso ha avere i primi della classe al governo? Ma sospendiamo il giudizio perché il momento è difficile e c’è ben altra ciabattonaggine dentro il palazzo.

A partire dalla “destra sovranara” più che sovranista, quella che rincorre gli eventi senza indicare la strada, quella della “maghina-n-doppia-fila e nun-se-ne-può-più”, quella che non va oltre lo slogan qualunquista, quella che fa gli elenchi di ciò che non va non parlando mai di soluzioni. Oggi più che mai si avverte forte la mancanza di un contenitore omogeneo che possa rappresentare degnamente un’alternativa nazionalista e riformatrice, la mancanza insomma di un Popolo delle Libertà senza nani, ballerine e “delfini senza il quid” imposti per capriccio del padrone.

Se Atene piange, Sparta certo non ride: è di questi giorni la notizia che Laura Boldrini, paladina dei diritti dei lavoratori, dei migranti e delle donne, se ne fotta bellamente delle lavoratrici donne (e in un caso anche straniere) del suo staff (secondo indiscrezioni provenienti dal suo apparato). Parrebbe che le tapine al suo servizio versassero in condizioni lavorative mortificanti sia dal punto di vista delle mansioni, sia dal punto di vista del rispetto della dignità, sia dal punto di vista economico. Tutti i maggiori quotidiani riportano la notizia che la sua colf si sia addirittura rivolta al patronato, per avere ciò che le spetta scatenando le ire della ex presidente della Camera che forse avrebbe gradito più un “matronato” che un patronato.

Vecchi luoghi comuni che tramontano, insomma, così come quello dell’efficienza meneghina. Nelle ultime ore le immagini trasmesse dai telegiornali mostravano un centro vaccinale palermitano operoso, ordinato e organizzato a fronte di una Regione Lombardia che non riusciva a convocare i vaccinandi, perché una società regionale aveva toppato l’invio degli sms di convocazione (l’ennesima di una lunga serie di errori). Il triste paradosso sta nel fatto che la Regione Lombardia abbandonerà la asburgica ed efficiente gestione delle prenotazioni “made in Milano” per rivolgersi a Poste Italiane. Sì, avete capito bene: la capitale morale, la locomotiva d’Italia, i meneghini che “lavurà e lavurà minga i terun” che si rivolgono a Poste Italiane, l’emblema dello statalismo romano che salverà “i lumbard” dalle loro boiate. Non è un luogo comune politico – si badi bene – ma un retaggio culturale ad essere messo in discussione. Il muro di Berlino lumbard” che cade perché costruito male.

Il “sciur Brambilla” si starà rivoltando nella tomba e avrà chiesto in prestito la spada ad Alberto da Giussano per tagliarsi gli attributi. Siamo al paradosso: i migliori che sono solo bravini, i difensori dei deboli che diventano carnefici, la destra della disciplina che “avanza a membro di segugio” e il Nord che diventa Sud. Una scena miserabile di cui bisognerà avere memoria, quando domani ce la verranno a raccontare come vogliono loro.

Aggiornato il 25 marzo 2021 alle ore 09:27