Le dimissioni di Zingaretti e il cane di Mustafà

Nelle ultime settimane Beppe Grillo non ne ha sbagliata una. “L’elevato”, ovvero colui che vuole dare l’impressione di occuparsi solo di cose alte e nobili, ha proprio fatto ciò che doveva, dimostrando di aver compreso fino in fondo ciò che intendeva Rino Formica quando definiva la politica come “sangue e me..a”. In prima battuta, ha fatto dire a Luigi Di Maio che il Movimento è un partito liberale e moderato. In questo modo, ha riposizionato la sua creatura politica al centro, ponendosi come partito interclassista e di massa, come scudo per i ceti medi. Posizionamento strategico, appartenente alla fu Democrazia Cristiana al netto della deriva confessionale, ma al lordo dei rapporti con il Vaticano tenuti da Giuseppe Conte.

Quest’ultimo, stante la popolarità ottenuta dalla sovraesposizione come presidente del Consiglio, è stato richiamato in servizio permanente come nuovo leader pentastar, facendo schizzare verso l’alto i sondaggi grillini. Secondo gli istituti statistici, il Movimento guidato da Giuseppe Conte si attesterebbe intorno al 22 per cento. Mossa ineccepibile anche in questo caso: prova ne sia la guerra nucleare scoppiata nel Partito Democratico contro Nicola Zingaretti. L’attuale leader del Pd è ritenuto responsabile di aver contribuito ad insufflare sulla popolarità di Giuseppe Conte, impalcandolo come capo in pectore della coalizione, onde poi farselo scippare dal comico genovese proprio quando i democratici avrebbero solo dovuto raccogliere i frutti dell’investimento. E in effetti i frondisti del partito di Nicola Zingaretti hanno ragione, perché quel 22 per cento dei grillini non pesca nel campo del centrodestra, ma in quello del Partito Democratico. E quindi “l’alleanza strategica” voluta da Zingaretti con il Movimento altro non è se non la storia del “cane di Mustafà” di Tomas Milian.

Beppe Grillo ha dimostrato alla politica come si agisce con destrezza ma la premessa è che il suo Movimento parte da una introduzione concettuale antitetica a certe furbate. E così “uno vale uno”, Rousseau, la democrazia diretta, le decisioni prese dal basso, la “Kasta” e le sue incoerenze fatte apposta per sopravvivere, la scatoletta di tonno, i parrucconi che sono morti e non lo sanno. Tutto spazzato via: adesso “l’Elevato” ha scelto Giuseppe Conte come capo, sostiene un banchiere come Mario Draghi alla presidenza del Consiglio e per giunta è alleato con Silvio Berlusconi.

Con buona pace degli apritori di scatolette, il Movimento aspira a entrare nella socialdemocrazia europea cambiando anche il bacino elettorale di riferimento, in una sorta di riposizionamento di mercato: una volta erano i nerd del “Vaffa-day” che si sentivano esclusi dai salotti buoni verso cui provavano invidia mentre oggi sono i ceti medi “liberali e moderati”. Una volta la massa critica era un enorme calderone entro cui confluivano i “contatori di niente”, quelli delle conchette lunari e della decrescita felice. Adesso quelli come “GigginoDi Maio e Danilo Toninelli sono entrati nella stanza dei bottoni e hanno gradito non poco. La Kasta è diventata quella roba che non è poi così male e con la quale si può addivenire a un compromesso, che preveda reciproche concessioni. Il tutto a danno del povero Nicola Zingaretti, il quale aveva pensato l’alleanza giallorossa per fare un po’ ciò che aveva fatto Matteo Salvini, cioè ridicolizzare e svuotare di voti i parvenu pentastellati. Deve essersi sentito proprio un incapace il fratello di Montalbano, dopo aver scoperto che i grillini gli avevano scippato nell’ordine: il bacino elettorale di riferimento, il leader su cui aveva tanto investito anche contro gli interessi di bottega, i posti nei ministeri, il partito europeo di riferimento, la leadership nella coalizione e una buona quantità di voti. Proprio quel Nicola Zingaretti, nato nella vecchia scuola del Partito Comunista, buggerato come uno scolaretto da quei “bravi ragazzi” grillini divenuti marpioni incalliti i quali, sondaggi alla mano, adesso possono trattarlo come i Democratici di Sinistra trattavano i cosiddetti cespugli dell’Ulivo.

Una fine ingloriosa e un disastro inverecondo, a cui Nicola Zingaretti non deve aver retto dopo aver scommesso sul cappotto ai grillini, dopo aver gonfiato il petto con Matteo Salvini per impedire alla Lega di entrare nella “maggioranza Draghi” e dopo aver invece perso su tutti i fronti. Alla fine si è dimesso, perché – come “er cane di Mustafà” – si era illuso di essere furbo e non si era accorto della fregatura, che arrivava proprio alle sue spalle.

Aggiornato il 05 marzo 2021 alle ore 09:53