Cinque Stelle liberali? Ma per favore

Definirsi liberali sembra essere diventata quasi una moda: quando non si sa – o non si capisce bene – quale etichetta cucirsi addosso, ci si auto-proclama “liberali”. Come se il liberalismo fosse una sorta di “passepartout politico” che apre a tutte le possibilità; una specie di parola d’ordine, utile a legittimare le proprie idee, quali che siano; una tela bianca da imbrattare a piacere. In Italia, sembra che tutti possano pensare di essere liberali, indipendentemente da quanto lo siano nella realtà. Ebbene, se in questo Paese avessimo avuto davvero tutti questi politici devoti alle idee di Hayek, Einaudi o Friedman, l’Italia sarebbe la “locomotiva d’Europa”; sarebbe un Paese dove le grandi aziende si accapiglierebbero per venire a investire; sarebbe un luogo dove chiunque vorrebbe lavorare, depositare i propri risparmi e acquisire beni immobiliari, dal momento che avremmo una tassazione minima e pressoché impercettibile.

Al contrario, siamo ben lontani dall’essere tutto questo: siamo un Paese economicamente allo sbando, con un debito pubblico altissimo, con un livello di spesa e di tassazione fuori controllo e storicamente afflitto da logiche burocratiche e parassitarie responsabili della stagnazione del sistema. Questo può significare solo una cosa: che di liberali ce ne sono stati davvero pochi, o comunque meno di quelli che si sono professati tali. Ultimo in ordine di tempo, Luigi Di Maio ha sottolineato come la volontà dei dirigenti del Movimento Cinque Stelle sia quella di attribuire allo stesso un nuovo carattere più istituzionale, moderato e liberale. Queste le parole dell’attuale ministro degli Esteri. Ora, mi chiedo cosa ci possa essere di liberale in un partito come quello fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, che vede nell’assistenzialismo – e non nel duro lavoro, nell’impegno personale e nel desiderio di emergere, in un contesto di libero mercato – la soluzione al dramma della disoccupazione e della povertà. Mi chiedo come si concili il presunto liberalismo evocato da Di Maio con l’ambientalismo radicale, votato alla “decrescita felice”, di cui il Cinque Stelle si è sempre fatto portavoce. È incomprensibile come la formula egualitaria “uno vale uno” possa essere coerente con una concezione – come quella autenticamente liberale – che invece percepisce come perfettamente naturali e necessarie le differenze tra individui. Trovo assurdo che si definisca “liberale” un movimento che, con la scusa dell’emergenza sanitaria, ha giocato con le vite e il lavoro degli italiani nel modo indecoroso che tutti conosciamo. Mi domando come sia possibile attribuire il nome di liberale a una forza politica che si è distinta per il suo carattere ferocemente giustizialista e forcaiolo e che vede in Jean-Jacques Rousseau, padre della “democrazia totalitaria”, il proprio punto di riferimento intellettuale.

Questo solo per fare alcuni esempi. Poco importa che indossino la cravatta, come l’attuale ministro degli Esteri, o che preferiscano arringare le masse di “mantenuti di cittadinanza” come Alessandro Di Battista. Nulla significa il fatto che facciano piroette parlamentari e che siano disposti a governare anche con Clemente Mastella pur di restare saldamente ancorati alla poltrona, o che adottino un atteggiamento improntato ad una ferrea coerenza in nome dei “principi fondativi” del Movimento: la loro natura giacobina e socialistoide rimane inalterata. In molti potrebbero chiedersi perché, in questo Paese, il termine “liberale” viene così abusato. Ci si potrebbe domandare perché lo si utilizzi tanto a sproposito, per significare idee e concezioni molto diverse da quelle che questa parola rappresenta in verità. Forse perché il liberalismo, in un Paese come l’Italia, storicamente dominato dal “catto-comunismo” e dal “conservatorismo ingenuo” (di chi vuole conservare solo per convenienza o per paura del cambiamento) possiede ancora un carattere di novità, e quindi è ancora in grado di suscitare curiosità e, potenzialmente, di attrarre qualche consenso in più. Forse perché il termine “liberale” suona rassicurante, equilibrato e sostanzialmente privo di implicazioni pericolose.

Più probabilmente, perché definire “liberale” il socialismo nelle sue varie sfumature è il modo migliore per invalidare il liberalismo stesso ed impedire qualunque riforma ispirata ai suoi principi. Quale che sia la ragione, solo una cosa è certa: i veri liberali non devono permettere ad altri di definirsi tali senza averne alcun diritto. Il significato di una parola muta al mutare dell’idea, della percezione comune e, quindi, dell’intendimento che le corrisponde. Ma non è questo il nostro caso: quella collezione di idee e principi che chiamiamo “liberalismo” è rimasta sempre uguale. Se non viene più inteso in maniera dovuta, è per la confusione indotta dai parolai e dagli affabulatori della politica. Quello che bisognerebbe fare è sforzarsi per riportare chiarezza nelle idee e, di conseguenza, nei termini. Davanti a chi si definisce “liberale” a sproposito – come i vari Di Maio, Bersani, Conte, Tajani e via discorrendo – i veri liberali devono essere pronti a mettere in luce le differenze, dal punto di vista teorico come da quello pratico, tra chi “liberale” lo è per davvero e chi, invece, lo è solo a parole o per la convenienza del momento.

Aggiornato il 02 marzo 2021 alle ore 09:28