Il Grillo e il rospo, Esopo 2021

“Taglia-taglia/spendi-spendi”. In pratica, un titolo di sintesi per un posto nella storia tra i due opposti Governi tecnici di Mario Monti versus Mario Draghi, l’uno a distanza di dieci anni dall’altro. Così come molto distanti sono le carature dei due supereroi dell’europeismo: il primo, burocrate ermetico e sacerdote dei rituali della nascente Unione europea di Maastricht del 1992, di cui fu suo fedele esecutore per l’igiene del bilancio pubblico italiano, giunto nel 2011 sulla soglia del quasi-default. Viceversa, il suo rivale nasce dalle ceneri del geniale Federico Caffè, per poi transitare nei corridoi dei passi perduti delle principali istituzioni bancarie nazionali, internazionali e poi europee. Il ricordo che i contemporanei e le generazioni future avranno di lui sta nelle tre parole lapidarie “Whatever it takes”, che pronunciò quando, da Governatore della Banca centrale europea (Bce), ammonì il resto della finanza speculativa mondiale che la sua Banca centrale avrebbe fatto tutto ciò che si fosse reso necessario per impedire il crollo dell’euro sui mercati internazionali. Tanto bastò per fermare la valanga. L’uomo era tanto silenzioso quanto determinato: perciò, l’attaccante, che sarebbe stato sicuramente sconfitto con perdite disastrose per lui e le sue tasche, desistette. Oggi quella stessa Europa e il resto del mondo guardano al suo tentativo disperato, quanto necessitato, di dare un Governo all’Italia che metta ordine nel suo caos organizzato, in cui molti, troppi, traggono enormi vantaggi e rendite parassitarie nel bloccare da decenni importanti riforme di sistema.

La sua chiamata alle armi da parte di un presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, stremato dall’inconcludenza politica dei Governi di Giuseppe Conte e dalla rissosità di partiti rimasti senza ideali, ma con appetiti spartitori ingigantiti dall’arroganza del potere che non deve rendere conto a nessuno, lo ha chiamato sulla tolda di comando del Titanic nazionale nella speranza di raddrizzare con una manovra spregiudicata e in extremis la nave che affonda. Perché l’Europa sa che questo suo primo vagito di federalismo, costituito dalla primizia assoluta dell’emissione di titoli europei del debito pubblico per un oltre un migliaio di miliardi, potrebbe essere ucciso nella culla proprio dalle pessime performance del suo più grande beneficiario. Cioè noi, l’Italia. Non solo: al navigator Draghi è affidato oggi molto più che la sola impresa del salvataggio delle nostre finanze nazionali e del corretto impiego delle risorse del Recovery fund per rilanciare l’economia italiana, il lavoro e l’occupazione, avviando a qualunque costo le riforme di sistema (Pubblica amministrazione, giustizia, fisco). L’obiettivo è infatti molto più ampio e ambizioso ed è tutto racchiuso in una semplice sigla, “G20”, di cui l’Italia per un anno, a partire da dicembre scorso, ha la presidenza di turno. Ora, sarà proprio nell’ambito di quel panel mondiale, in cui siedono allo stesso tavolo le più grandi economie del pianeta, che si decideranno le modalità d’impiego e l’entità degli enormi investimenti che saranno necessari, soprattutto all’Occidente, per rilanciare la sua economia globale post-pandemia, in cui le Banche centrali giocheranno un ruolo esclusivo e strategico.

Mario Draghi e Janet Yellen, neo-ministro del Tesoro Usa ed ex Governatore della Fed (Federal reserve) americana, saranno le eminenze grigie che a quel tavolo sono destinate a svolgere un ruolo determinante di sherpa, grazie al loro potere e all’esperienza acquisita in passato ai vertici della tecnocrazia finanziaria mondiale. Se la strategia a livello mondiale è chiara, tuttavia è in Italia che si trova la sua fossa delle Marianne. Siamo nelle mani, per capirci, di un Beppe Grillo che dovrà ingoiare il rospo Draghi, se la sua rana gialla vorrà portare a riva lo scorpione rosso, con il quale congiungersi in una velenosa, futura unione politica-elettorale. Poiché un Governo deve avere la fiducia del Parlamento, ma anche rispettare in questo caso il mandato presidenziale di non privilegiare alcuna alleanza politica, non resta che la via consociativa del “tutti dentro” che, però, è un roseto di sole spine. Più la santa alleanza si allarga, più stretto sarà il margine di manovra dell’ex Governatore. Infatti: sui provvedimenti in cui due, o più soci sono in disaccordo frontale, chi vincerà? Draghi avrà o no la golden share all’interno del Consiglio dei ministri? O gli argomenti divisivi verranno semplicemente accantonati e congelati?

Come si ri-orienterà la spesa sociale? Potrà un keynesiano-social-rigorista come Draghi stare dentro la spesa improduttiva di quota 100 o, peggio, di un reddito di cittadinanza incapaci entrambi di rilanciare l’occupazione, con un sovraccarico di assistenzialismo senza crescita del mercato del lavoro? Le grandi riforme si potranno fare minimizzando equamente gli svantaggi per tutti i partiti che stanno nel board consociativo? Ovvero, il presidente incaricato taglierà corto, rifiutando estenuanti mediazioni? E se insorgessero insanabili contrapposizioni su punti strategici della realizzazione del programma-Draghi che cosa accadrebbe? L’unica soluzione sarebbe perdere pezzi quanto basta, per non andare sotto la maggioranza assoluta alla Camera e al Senato. Draghi, per vocazione, è obbligato ad avere una visione decennale delle sorti del bilancio pubblico italiano, perché l’intervento dell’Europa assomma al debito assistenziale e improduttivo dei governi Conte “anche” quello dei prestiti (centinaia di miliardi, compresi quelli del Fondo Sure per il sostegno alla cassa integrazione Covid e, eventualmente, del Mes) derivanti dal Recovery fund. Per di più, nel 2023 l’Italia si troverà priva sia dello scudo Bce per l’acquisto dei suoi titoli del debito pubblico, sia dell’enorme beneficio della sospensione dei Trattati sul contenimento dei deficit statali.

Draghi, cioè, dovrà agire sul versante della spesa massimizzando le aspettative di creare sia nuova occupazione, sia di rilanciare le imprese oggi indebitate ma, fondamentalmente sane. Forse, sarebbe stato meglio ricalcare le orme di Mario Monti, nominando Draghi senatore a vita prima dell’incarico di formare il nuovo Governo, in modo che, se domani dovesse cadere prematuramente, sarebbe lui a creare un Movimento europeista moderato destinato a vincere le prossime elezioni. Troppo presto per imbalsamarlo al Quirinale tra meno di due anni: il Capitano ha ben altri mari tempestosi da attraversare per portarci in salvo!

Aggiornato il 09 febbraio 2021 alle ore 10:20