Critica solitaria all’entusiasmo totalitario sul Governo Draghi

“Il parere della maggioranza non può essere che l’espressione dell’incompetenza, la quale poi risulta dalla mancanza d’intelletto o dall’ignoranza pura e semplice”. Così, ne “La crisi del mondo moderno”, René Guénon sintetizzava l’idea secondo la quale non sempre ciò che la maggioranza reputa giusto è realmente giusto. In questo, senso più che rassicurare, come pare che rassicuri, dovrebbe invece preoccupare che la proposta di un nascente Governo di Mario Draghi abbia “pacificato” l’arco costituzionale mettendo tutti d’accordo e trovando un totale, totalizzante e fors’anche totalitario consenso di socialisti e liberali, progressisti e conservatori, sovranisti ed europeisti, laici e cattolici. Sul punto, infatti, si potrebbe avanzare una critica, senza dubbio minoritaria, ma non per questo meno legittima rispetto alla prevalente opinione corrente della maggioranza critica che, per essere compiuta, deve svolgersi almeno su due piani, uno di metodo e uno di merito.

Sul versante del metodo: piaccia o meno, quando in un sistema democratico, in uno Stato di diritto, tutti pensano all’unisono la medesima cosa concordando su una unica figura politica e di Governo, qualcosa non sta funzionando come dovrebbe, e ciò non in virtù di complicate dottrine filosofiche o sofisticate analisi politologiche, ma in virtù della semplice e chiarissima esperienza storica. I regimi in cui tutti concordano con un unico individuo, sostenendolo, incoraggiandolo, accordandogli la propria fiducia, in cui la pluralità viene ridotta ad univocità, in cui la differenziazione dei programmi e delle dialettiche politiche viene semplificata all’unità, sono proprio i regimi totalitari. Come ciascuno era d’accordo con Stalin e nessuno avrebbe mai osato dissentire da Mao, così tutti erano spontaneamente convinti o indotti a convincersi che sotto la infallibile guida unitaria del capo il futuro avrebbe spiegato tutta la propria radiosa prosperità.

Sul versante del merito, invece, occorre evidenziare tre aspetti. In primo luogo: se tutte le forze politiche senza eccezioni convergono sulla medesima figura di capo di Governo, anche se con la giustificazione del periodo emergenziale, significa che tutte compongono la maggioranza e che, dunque, ci si ritrova in assenza di minoranza a cui spetta l’opposizione, con una evidente distorsione del principio democratico e della fisiologica dialettica politica di uno Stato di diritto. In secondo luogo: essendo Draghi l’ennesimo esponente tecnico prestato alla politica per gestire quelle situazioni politiche che i partiti non sono fino ad ora riusciti a gestire, si evince come ancora una volta – specialmente se tutte le forze politiche lo sosterranno – la sintesi politica tipica di una democrazia effettiva e compiuta abbia abdicato in favore dello “stato d’eccezione” la cui soluzione è stata affidata al “dictator pro tempore”, che con le sue presunte taumaturgiche potenzialità dovrebbe rappresentare l’attesa panacea. Tuttavia, è bene precisare che se proprio nello stato emergenziale la politica rinuncia alle proprie prerogative, essa viene meno al proprio ruolo e alla propria funzione, creando una grottesca vacatio nel tessuto istituzionale di quella che si reputa una democrazia. In terzo luogo: l’idea di un Governo dei cosiddetti “competenti” rappresenta sempre un terreno sdrucciolevole, poiché non soltanto verrebbe da chiedersi chi sia in grado di giudicare che alcuni sono più competenti di altri, ma ci si dovrebbe altresì chiedere perché, allora, non affidare il Governo a questi competenti ben “maggiori” a cui è demandato il compito di individuare gli altri competenti a questo punto “minori”. A ciò si aggiunga la considerazione per cui l’idea che la politica debba sempre in un modo o nell’altro, per lo spread nel 2011 o per il Coronavirus nel 2021, essere commissariata in quanto strutturalmente incompetente, rivela la più corrosiva, drammatica e reale forma di anti-politica che possa effettivamente concepirsi.

La delegittimazione, e l’altra faccia della stessa medaglia, cioè la deresponsabilizzazione della politica, infatti, passano attraverso l’arco di trionfo dei governi tecnici, che sono strutturalmente deficitari della causa legittimante (cioè la rappresentatività), del mezzo operante (cioè, appunto, la sintesi politica che è e deve essere sempre altro e oltre rispetto al mero mezzo tecnico). E, infine, dell’effetto operato (cioè la responsabilità politica sanzionata dallo strumento elettorale) che contraddistinguono, o quanto meno dovrebbero contraddistinguere, i governi politici tipici di un normale sistema democratico politicamente, e non tecnicamente, fondato. Gli entusiasmi giubilanti per il nascente Governo Draghi, dunque, dovrebbero senza dubbio essere ridimensionati alla luce di una auspicabile più attenta ponderazione della storia passata e delle prospettive future, proprio per evitare che possano ripetersi errori già commessi in base a strabiche concezioni della democrazia, dello Stato di diritto e della loro autentica dimensione politica e giuridica.

Aggiornato il 09 febbraio 2021 alle ore 09:43