Eredi di Gramsci?

Ci si chiede sempre più spesso quanto l’azione dell’attuale autorità governante sia da inquadrare in una linea politica di sinistra che, in un certo qual modo, si richiami a Filippo Turati, tendente a coniugare la cultura socialista con la cultura liberale, oppure in uno schema di socialità basato sulla “tolleranza e sul rispetto” verso le ragioni di tutti, di indirizzo gramsciano, così come ossessivamente vanno ripetendo da sempre i veneratori di questo carismatico personaggio, ovviamente senza il supporto di adeguata documentazione, costruendo così questa falsa verità, una contraffazione storica di immane proporzioni che ha contrassegnato, ancora fino ai giorni nostri, la cultura politica della sinistra.

Occorre dunque domandarsi, innanzitutto, se Antonio Gramsci fosse veramente un esempio di altissima tolleranza e di massimo rispetto per le idee altrui, avversari compresi, ovvero se la sua non rappresentasse, invece, una deliberata pedagogia dell’intolleranza così come documentano alcuni suoi violenti scritti, articoli e varie, contenenti insulti, offese volgari, feroci denigrazioni e calunnie, ridicolizzazioni e demonizzazioni veementi, minacce di sterminio ed esaltazione della violenza rivoluzionaria e della dittatura. Insomma, la teorizzazione dello Stato comunista come di “un presidio” che fornisce “le armi necessarie e sufficienti per sopprimere gli avversari”, l’ideologia di uno sterminio di massa in grado di trasformare l’Italia in un gigantesco mattatoio. E tutto ciò, si badi, è emerso manifestamente a seguito di recenti ricerche e acquisizioni documentali di insigni studiosi, il che ha gettato in un dramma psicologico chi ha dedicato una vita intera a dimostrare che Gramsci era un uomo democratico e tollerante, avendo ora scoperto che in realtà si trattava di una cultura politica violenta e liberticida, rielaborata poi in “teoria dell’egemonia”, che poneva al centro non tanto la conquista dello Stato, bensì quella della società civile, che dietro lo Stato si occulta.

A ben vedere, dunque, è proprio siffatta teoria – rivisitata e di certo depurata di tutte le incrostazioni omicidiarie che l’avevano preceduta nell’analisi gramsciana della conquista dello Stato e della società – unita ad una sostanziale cultura dell’intolleranza e ad un nefasto intransigentismo del tutto incompatibile con lo spirito liberaldemocratico, ad impregnare pesantemente, innestando in tal modo un sottile meccanismo coercitivo, l’autorità governante in atto, che assedia le coscienze con un imperativo categorico, che diventa la base di una sorta di laicizzazione di tutti i rapporti sociali.

Non è questa la sede per dibattere sui vari provvedimenti adottati, magari non sempre e non del tutto a sproposito, ma per lo più in maniera incoerente, in tema di pandemia o in campo economico e sociale o – dopo la “liberazione” dalla zavorra salviniana – su quelli ignobilmente già assunti o in fieri in materia di immigrazione per una pervicace ideologia neo-terzo/quartomondista della sinistra nostrana, oscillante tra la mistificazione e il ridicolo, che si è assunta così, nonostante asserti a contrariis, la funzione di losco becchino dell’Europa e in primis della nazione italiana, naturale avamposto da assediare/occupare da parte di incontrollate e incontrollabili orde di migranti.

Il problema vero dunque, è, per cosi dire, di carattere “filosofico” sull’occupazione e la gestione del potere e di tutti i suoi recessi, nonché sul controllo egemonico della società o di consistenti pezzi di essa, per lo più quelli legati a doppio filo alla più bieca burocrazia e alla affaristica politica che la alimenta e la sorregge: tutto quello, insomma, che la sinistra comunista – ancora oggi egregiamente interpretata/reinterpretata dagli innumerevoli paracomunisti, postcomunisti e comunisti tout court, traditori sinistri, che continuano ad allignare in questa stuprata democrazia rappresentativa – ha sempre fatto e continua, ora più che mai, a fare nel nostro Paese, ciò che ha indotto un insigne studioso a chiedersi il perché la cultura politica prevalente sia di sinistra mentre il Paese è di destra. Per di più, il tutto condito da un’odiosa pedagogia dell’intolleranza verso chi si ostina a non farsi battezzare o convertire da una dottrina che, sotto nuove e più sofisticate forme, ha le pretese, le supreme ambizioni e le inumane intransigenze di una “crociata religiosa”.

Questo sinistroide monstrum governante, con tutti gli “scarafaggi” al suo servizio – gli utili idioti di cui già davo cenno in altro scritto, diventati tali in quanto tendenti soltanto a superare, nella loro dolorosa “dissonanza cognitiva”, una latente consapevolezza della propria nullità – sta quindi spasmodicamente tentando di instaurare, anche avvalendosi di minacce ambigue e paranoiche demonizzazioni, una sofisticata “tecnologia di dominio, una sorta di democrazia olistica, se non addirittura totalitaria, un progetto giacobino, un remake, per così dire, dello Stato spartano, in contrapposizione a quello ateniese: l’uno a vocazione totalitaria, l’altro a inclinazione liberale, questa sì compatibile con la “libertà dei moderni”, come teorizzata da Benjamin Constant.

Questa classe dirigente, “scarafaggi” compresi, plasmata da sinistri, degni eredi gramsciani, questa poco invidiabile èlite che ha perso ogni parvenza di dignità nel voler pervicacemente persistere nell’alveo del potere supremo e che pretende anche il possesso della coscienza privata di tutti i cittadini, ossessionata da un esibizionismo da parvenu e da un consumismo ostentativo senza pari, deve essere sostituita, spazzata via prima possibile, e con essa il suo “principe”, il “cavaliere nero”, una specie di ineffabile, diacronico “baronetto”, il quale, con raffinata arte teatrale, incarna nel contempo le figure dell’eroe e del martire. Egli accetta e capeggia tutto questo ciarpame, a guisa di un novello Lohengrin, emerso d’improvviso dall’opera wagneriana – che guidava però uomini eletti e non mezze tacche – che si lascia santificare tra fiumi di melassa e nuvole d’incenso. In attesa di essere elevato poi a martire e salvatore della nazione in pericolo di soccombenza innanzi ad oscure forze maligne, in una sorta di autoinganno collettivo di cui sono in preda tutti gli uomini del regime.

Già, un regime sulfureo questo in atto, un regime sotto il quale – come nel “mito della caverna” di Platone – gli italiani vivono come i prigionieri della caverna, che riescono a scorgere solo le ombre, i revenants, gli spettri dell’agghiacciante realtà che li circonda e li avvinghia in un abbraccio mortale. Una ulteriore insanabile dicotomia, dunque, di questa degradata Repubblica, la Repubblica di un Paese triste, incupito, una Repubblica nata dalla terra e che sta finendo nel fango – sì fango anziché terra – una Repubblica nata tra lacerazioni, equivoci e contraddizioni profonde, dove non è possibile neppure l’esistenza di una storia condivisa e dove il passato continua follemente a non passare. Un recinto culturale e politico da cui però è possibile uscire, sempreché si reagisca nelle istituzioni alla valanga di immondizia che rischia di ricoprirci tutti, purché reagiscano innanzitutto gli intellettuali, gli insegnanti, tutti coloro che hanno responsabilità e doveri nei delicatissimi settori dell’informazione e della formazione, come pure la borghesia liberale, od anche solo marginalmente liberale, non più gialla di paura come finora accaduto, nella consapevolezza della fede nella libertà e nella sua superiore missione etica, atteso che nessuna democrazia liberale e rappresentativa può sopravvivere in mancanza di fides publica, e di difesa, unguibus et rostris, dei suoi valori indeclinabili, indefettibili. Non di certo quelli fasulli, effimeri e conformisti, tanto cari alla sinistra nostrana, del buonismo d’accatto, del terzo/quartomondismo umanitarista ad ogni costo e dello sconsiderato e disinvolto uso/abuso del potere pubblico, che in ogni tempo presiedono all’ordinato sviluppo democratico di uno Stato sovrano: tutto ciò in uno alla riaffermazione forte dei suoi valori identitari.

In assenza di una possente risposta globale, dunque, non vi sarà più rimedio contro la tragicommedia folle della democrazia italiana, nella sua forsennata corsa verso “scogliere” aspre e impossibili, contro le quali è destinata, in un tempo non lontano, inesorabilmente a schiantarsi.

Aggiornato il 19 ottobre 2020 alle ore 12:02