Breviario di antropologia comunista

venerdì 16 ottobre 2020


Il comunista è “burocratofilo”: ama la burocrazia, ma si lamenta della sua inefficienza; ha voluto la bicicletta, ma gli dispiace di dover pedalare e quanta maggiore fatica gli costa pedalare, tanto più è propenso ad accusare i “corrotti”, i quali sono “nemici del popolo” e appartengono, ovviamente, alle forze reazionarie in agguato. Cosicché è la stessa “burocratofilia” ad alimentare il giustizialismo dell’anthropos comunista.

È molto comodo per il sindaco inetto, imputare il degrado della città, dovuto a un pessimo servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti, all’inciviltà dei cittadini; con tale escamotage, che consiste nel confondere la causa primaria con la secondaria, il sindaco precostituisce la sua difesa innanzi agli elettori. Molto simile è l’acuta analisi politica del comunista, a riguardo di tutti i servizi erogati dall’apparato pubblico: egli non mette mai in discussione l’opportunità della gestione pubblica del servizio, dal momento che la gestione privata servirebbe solo ad arricchire il “capitalista”, e ravvisa nei “corrotti” la vera causa dell’inefficienza; la corruzione dilagante dal punto di vista del comunista – come l’inciviltà dei cittadini dal punto di vista del sindaco – è la vera causa delle falle di un sistema pubblico, di per sé meravigliosamente diretto a soddisfare il bisogno di tutti, piuttosto che a soddisfare l’egoistica sete di denaro del capitalista di turno.

In realtà, la semplicistica e ingenua rappresentazione del comunista è fallace per due ragioni. La prima risiede nell’errata identificazione gestione=interesse. Anche la gestione privata può perseguire interessi pubblici; lo strumento di per sé è neutro; il fine corrisponde all’interesse, non lo strumento. Senza contare che, laddove l’apparato pubblico gestisce il servizio, il soggetto controllore e il soggetto controllato vengono a coincidere, giacché l’apparato pubblico controlla la gestione affidata a se stesso. Ed è facilmente intuibile che tale commistione non può che dare pessimi risultati; come d’altronde è sotto gli occhi di tutti nelle nostre città, dove le “municipalizzate” gestiscono i servizi sotto il controllo degli organi dello stesso “Municipio”. L’osservatore ingenuo non coglie, né la distinzione fine/strumento, alla quale corrisponde quell’altra interesse/gestione, né la commistione e sovrapposizione delle funzioni che si realizzano in capo a uno stesso apparato pubblico. Dunque, il comunista anelante per definizione a mettere tutto in comune, ancora una volta si dimostra molto più ingenuo, di quanto la sua spocchia intellettuale sia disposta a riconoscere.

La seconda ragione mette in luce un altro aspetto dell’antropologia comunista: la burocratofilia è sintomatica di una personalità che aborre il rischio e la responsabilità personale, nonché incline alla diffidenza generalizzata. Per spiegare questo punto, è necessario premettere, per grandi linee, le essenziali differenze tra la metodologia dell’apparato pubblico e quella dell’apparato privato. Il grande maestro Ludwig von Mises (“Burocrazia”, edizione Rubbettino) ci ha insegnato a distinguere i due apparati, non già in ragione della dimensione, posto che il numero degli addetti di una grande azienda sovrasta certamente quello di un piccolo Comune, bensì in ragione della possibilità del calcolo economico di risultato. Le aziende che operano nel mercato hanno un solo, vero padrone: il consumatore. È vano distinguere la produzione per il profitto da quella per il consumo, perché senza la ricerca del primo, espresso dalla prevalenza dei ricavi sui costi, non si riesce ad adeguare l’offerta dei beni alle mutevoli esigenze del consumatore. Alla base dell’impresa privata c’è dunque il calcolo dei costi/ricavi; e per quanto grande sia l’impresa, tale calcolo è possibile per ogni sua singola parte. Tutte le parti del complesso aziendale devono dare il loro apporto agli utili di esercizio; sotto questo profilo, sono assimilabili a piccole imprese autonome. La conseguenza è evidente: il direttore del ramo, del settore o della filiale ha un interesse personale al buon andamento dei fattori produttivi da lui controllati; è una sorta di “socio” dell’imprenditore, perché il suo vantaggio personale e il suo successo sono legati al profitto d’impresa. L’ulteriore conseguenza è che i comandi dell’imprenditore, rivolti al suo “socio”, si possono ridurre a uno solo: contribuire al profitto aziendale. E poiché tale contributo è verificabile a consuntivo, sulla base del calcolo costi/ricavi, il “socio” gode di una certa autonomia, nella scelta dei mezzi per arrivare al risultato. Purché il risultato economico sia raggiunto, all’imprenditore importa poco quale strada abbia seguito o voglia seguire in futuro il suo “socio”.

Nella cosa pubblica non è possibile il calcolo economico di risultato. Il buon fine dell’attività di un commissariato di polizia non può essere assoggettato al calcolo economico; ciò è reso palese dal seguente paradosso: in una situazione ideale di assenza del crimine, l’apporto del commissariato alla repressione dei fatti delittuosi potrebbe essere considerato nullo; ma potrebbe ugualmente essere considerato il più rilevante possibile, giacché avrebbe prodotto l’assenza del crimine, ossia il migliore risultato possibile. Ebbene, laddove manca la possibilità del calcolo economico di risultato, la fedeltà del funzionario ai comandi sovrani può essere assicurata solo se la sua attività è imprigionata dentro maglie ristrette, che ne escludono l’autonomia decisionale. Il sovrano (in democrazia il popolo) non può delegare i suoi poteri al funzionario, perché ne farebbe un altro piccolo sovrano, ossia un satrapo indipendente, esercente sovranità nei limiti territoriali e funzionali della sua competenza amministrativa. Ne discende che gli atti del funzionario pubblico non possono che essere predeterminati e tipici, rigidamente omologati in un protocollo; e l’attività burocratica non può che essere vincolata, subordinata, eteronoma e incompatibile con l’iniziativa e l’interesse personale.

Da qui un’ulteriore conseguenza: i procedimenti burocratici sono necessariamente lenti e farraginosi. La rapidità decisionale è legata inesorabilmente all’autonomia decisionale. Solo chi può assumersi il rischio di sbagliare può decidere rapidamente, senza il vincolo di una previa consultazione e la trafila dei passaggi preparatori. Il burocrate non assume il rischio personale e non decide sulla base di valutazioni personali; non sceglie, ma esegue. I suoi atti devono essere “depurati” di qualsivoglia sospetto di personalismo; devono essere perciò metabolizzati all’interno dell’apparato, prima di essere partoriti all’esterno e produrre effetti in capo ai cittadini amministrati. La macchinosità dei procedimenti burocratici è dunque inevitabile, perché scaturisce dai caratteri intrinseci e immutabili dell’Amministrazione pubblica.

Di tutto ciò non si avvede il saccente comunista, che intende “pubblicizzare” tutti gli aspetti della vita associata; il che significa sottoporre alle leggi della burocrazia l’intera dinamica dei rapporti sociali e paralizzare lo sviluppo economico. Egli è intimamente “burocratofilo”, perché aborre l’assunzione di rischio nei rapporti economici di dare/avere e l’assunzione di responsabilità personale nei rapporti di lavoro. Il suo fine politico è la società burocratizzata, perché il suo fine personale è la vita deresponsabilizzata. Ovviamente si lamenta delle “lentezze” della burocrazia; la coda innanzi agli sportelli pubblici lo infastidisce quanto e più degli altri utenti; anzi le sue “grida” sono le più alte e acute, avendo egli individuato i veri responsabili, ossia i “corrotti”. In verità il comunista-utente entra in contraddizione con se medesimo, ossia col comunista-pensatore che desidera i presupposti di ciò di cui si lamenta. Sicché, in ultima analisi, il comunista, essendo “burocratofilo”, non può che essere “lagnoso”: non può che lamentarsi di dover pedalare, anche se è stato lui a volere la bicicletta.

(5/Continua)


di Michele Gelardi