La “spallatina”

C’era da aspettarselo. Ancora una volta tutti dicono di aver vinto. Gli altri invece hanno perso malamente. Il popolo è straordinario quando li premia e bue quando li boccia. Siamo alle solite insomma. Per il resto è tutto uno snocciolare di cifre messe in fila nel modo più consono a portare acqua al mulino della propria tesi. Come nelle migliori tradizioni. Nulla di nuovo sotto il sole. Effetti collaterali di una politica cialtrona che si risveglia solo a ridosso delle elezioni onde poi addormentarsi quando si tratta di governare. Ciò che rimane sono le cifre nude, quelle – per intenderci – prive di orpelli retorici capaci di far sembrare charmant anche una racchia malefica. E allora meglio parlare di fatti indubitabili come ad esempio il risultato del Partito di Matteo Renzi e dei Cinquestelle. Questi due soggetti politici sono uniti da un comune destino e cioè quello di essere ufficialmente defunti. Solo che i Cinquestelle sono spariti lentamente mentre Italia viva – così come il partitino di Carlo Calenda – è morta in culla di morte traumatica e cioè schiantandosi al primo appuntamento elettorale importante.

Quanto ai due contendenti principali (centrodestra e centrosinistra), in queste ore la narrazione dominante descrive il trionfo di Nicola Zingaretti e la deflagrazione di Matteo Salvini. I dati fattuali, a nostro parere, raccontano un’altra storia: è finita tre a tre con il centrodestra che ha strappato una regione agli avversari (le Marche) e il centrosinistra che mantiene Campania, Puglia e Toscana. La spallata, come ampiamente prevedibile, non c’è stata così come non c’è stato il trionfo del centrosinistra che addirittura perde una regione. Al massimo si può parlare di “spallatina” (le Marche) di Salvini cui si contrappone un pericolo scampato da parte di Nicola Zingaretti del quale non si può dire che abbia vinto per il sol fatto che non abbia perso in Campania, Puglia e Toscana. In Campania la partita non c’è mai stata e in Toscana (così come in Emilia-Romagna) nessuno sano di mente avrebbe mai potuto veramente sperare che una tradizione di sinistra lunga ottant’anni potesse mai essere cancellata. Almeno non per ora. Se invece di Susanna Ceccardi ci fosse stato un candidato dotato di un maggior peso specifico, forse il centrodestra avrebbe potuto fare qualcosina di più. Ma certo non miracoli. E su questo Matteo Salvini (anche alla luce del risultato di Lucia Borgonzoni in Emilia) dovrebbe riflettere con una certa cura.

Resta la Puglia che è la vera nota dolens. In quest’ultima regione – dopo quindici anni di un centrosinistra non proprio brillante – c’erano tutte le condizioni per il sorpasso. Se ne era accorto anche Michele Emiliano che infatti negli ultimi giorni aveva tentato mille manovre disperate come la stabilizzazione dei precari della sanità a Taranto e lo straziante appello al voto disgiunto indirizzato insistentemente (anche troppo) alla volta dell’elettorato Pentastar. Il voto disgiunto c’è stato e ha funzionato anche perché dall’altra parte c’era un candidato (a torto o a ragione) non gradito ai pugliesi per storia personale. Che Raffaele Fitto stesse sul naso a molti, non è mica una notizia riservata. Non stiamo dicendo che sia giusto che i cittadini gli rimproverino i suoi cinque anni da presidente della Regione. Stiamo solo affermando che i fatti sono questi, che erano noti e che quindi questa candidatura era un disastro annunciato. Nella migliore delle ipotesi Raffaele Fitto avrebbe potuto spuntarla di un’incollatura e queste non erano certo premesse incoraggianti. Pinuccio Tatarella era una figura di riferimento che manca molto ai pugliesi non di sinistra. Di fronte a queste ingenuità politiche e strategiche, Pinuccio Tatarella manca molto di più.

E le ripercussioni sul Governo? Tutti descrivono un Esecutivo che esce blindato dal voto. Ma è impossibile prevedere cosa accadrà domani: un Partito Democratico ringalluzzito – messo a sistema con un M5s prostrato – potrebbe sicuramente fungere da elemento stabilizzatore. Ma se i Pentastar sentissero il fiato della sconfitta sul collo e decidessero di marcare le proprie specificità e contemporaneamente il Partito Democratico decidesse di passare all’incasso sentendosi il nuovo azionista di maggioranza della coalizione? Sicuramente per Giuseppe Conte comincerebbero le montagne russe. E l’esito sarebbe imprevedibile.

Aggiornato il 23 settembre 2020 alle ore 13:04