L’unica speranza è smontare l’apparato

Inutile pensare di risollevare il Paese, tirarlo fuori da una sabbia mobile che, maledizione Covid-19 a parte, viene da decenni di follie per l’assemblaggio di un apparato da socialismo reale, da Paese di sinistra, che una politica cattocomunista, assistenzialista, clientelare e statalista ha generato scelleratamente. Ecco il male italiano. La corda che piano piano gli ha strozzato il fiato è proprio lo Stato. Quell’apparato improduttivo, burocratico, sterile e invasivo, che si è infilato ovunque, moltiplicato inutilmente, diventando nel tempo una iattura. Parliamoci chiaro: il sistema pubblico si paga coll’impegno del privato, col fatturato della produzione vera, con gli investimenti e l’intrapresa di chi fatica e rischia per avere dal lavoro sia il vantaggio sia la resa. Ecco perché in qualunque sistema Paese intelligente deve esserci non solo una giusta proporzione nella dimensione dell’apparato pubblico rispetto al privato, ma la struttura al servizio collettivo anziché un peso deve essere un sollievo, un aiuto, una agevolazione per chi produce la ricchezza della nazione e una garanzia per la crescita dell’economia. L’apparato pubblico, oltreché pensare a chi sta peggio, a tutelare i diritti basilari, a compensare le carenze e le mancanze elementari, deve occuparsi di favorire, accelerare ogni processo produttivo che aumenti la ricchezza nazionale per avere più benessere generale, più risorse, più occupazione da economia reale. Per farla breve, le necessità di cassa di uno Stato, i soldi necessari al ruolo e al funzionamento, al pagamento dei servizi e delle forniture, alla corresponsione di chi serve alla nazione, non nascono dall’albero degli zecchini d’oro, ma dalla produzione, dall’ammontare delle attività economiche e finanziarie, dalla somma delle posizioni nette dei soggetti che investono, producono e fanno risultato.

La ricchezza prima di essere distribuita deve essere prodotta, perché altrimenti il circolo anziché virtuoso diventa vizioso e la necessità di cassa diventa come un’ombra che più la segui e più ti fugge, più la fuggi e più ti segue. È così che in modo seppure grossolano inizia ogni percorso destinato al fallimento, all’indebitamento fine a sé stesso, alla necessità più ossessiva di risorse che non esistono, non hanno contropartita e diventano passività crescenti. Del resto, chiunque spenda più di quanto possa e spenda male, sprechi e sperperi danari, viva troppo al di sopra dei suoi mezzi, non abbia a cuore il principio del bilancio fra le entrate e le uscite, è destinato ad inguaiarsi con i conti spesso di brutto. Ecco perché abbiamo scritto che in Italia, finito Luigi Einaudi, il miracolo economico, l’Oscar della lira del Sessanta, terminata la guida di un grande economista e politico liberale, ha preso il sopravvento il cattocomunismo che già c’era ma non era riuscito ancora, grazie ad Einaudi, ad imporre la linea dello sfascio che da allora in poi c’è sempre stata. È infatti dagli anni Sessanta che è iniziata la rincorsa della spesa allegra, del passo più lungo della gamba, dello stato assistenziale a più non posso, dello scambio elettorale col posto fisso, della moltiplicazione degli uffici pubblici, degli organismi e degli enti fino alle regioni nel 70, del tutto pubblico di carrozze e carrozzoni a partire dalle Poste, baby pensioni e privilegi contributivi agli statali. È da allora che sono iniziate assunzioni a gogò e clientelari ovunque, dove bastava un centralinista se ne mettevano 5, dove serviva un usciere se ne assumevano il triplo, dove era necessario un autista se ne trovavano il doppio, dove era sufficiente un dirigente se ne promuovevano il quadruplo.

È da allora che sono nati dipartimenti, distaccamenti, enti territoriali di tutti i tipi, uffici pubblici più strani, si sono moltiplicate cattedre, posizioni apicali, aumentati a dismisura gli stipendi statali, basterebbe pensare ai privilegi salariali di Enel, Ferrovie dello Stato, Banca d’Italia, Inps, Inail, Alitalia, banche d’interesse nazionale, per non parlare della magistratura, corte dei conti e avvocatura, e poi chi paga? Parliamo di poltrone, posti, dipendenze, che non solo aumentavano come i funghi ad ogni governo e legislatura ma venivano dotati di privilegi incredibili, authority, commissari, dipartimenti con a capo un’infinità di dirigenti, per non parlare della Cassa per il Mezzogiorno, dell’Anas, delle municipalizzate, delle partecipate, della mutua sanitaria che passava tutto senza limiti. La previdenza poi è diventata un paradiso, con l’assistenza mescolata assieme per creare un impasto antieconomico e dannoso dove tra furbetti, falsi invalidi, malati eterni, permessi retribuiti, scivoli garantiti, ferie termali e sconti fiscali, pensione retributiva, una sorta di materia refurtiva. La burocrazia che condanniamo mica è nata da sola, i costi insopportabili che denunciamo mica si sono autodeterminati, gli uffici pubblici da iattura dove la fila di ore è sicura mica sono spuntati per destino, sono nati per legge, provvedimenti parlamentari, votazione delle camere, per scelte politiche volute nella gran parte dalla Dc e dal Pci per anni e anni. Come per anni e anni i sindacati anziché pensare che il lavoro viene dalle imprese, dal rischio dell’investimento, dallo stimolo alla produzione, hanno pensato a combattere il “padrone”, alle festività soppresse, alle 35 ore, alle pensioni anticipate di anni, ai diritti da trasformare in privilegi, col risultato che il costo del lavoro è diventato una zavorra tale da essere un vulnus infernale. Nel corso degli anni il nostro sistema contrattuale è diventato quello col minor numero di ore lavorate a livello annuale, col maggior numero di ferie, di festività pagate, di garanzie anche a dispetto dei santi rispetto al resto del mondo occidentale.

Ecco perché negli anni siamo andati peggiorando, crescendo sempre meno, abbiamo avuto l’amplificazione degli obblighi, adempimenti, certificati e vincoli di ogni tipo all’intrapresa, all’iniziativa, al negozio del lavoro, mentre il sistema fiscale diventava sempre più aggressivo, ossessivo e disarmante, penalizzante la produzione di ricchezza. Per cambiare il Paese bisogna smontare tutto questo groviglio pazzesco d’apparato, burocrazia, impianto pervasivo, cancellare la presenza dello Stato ovunque, chiudere carrozzoni, aziende inutili a tutto, tagliare il giogo di un apparato soffocante e inefficiente, costoso e spesso nullafacente, cassare una miriade di leggi che anziché servire ci lasciano morire lentamente. In una parola libertà, democrazia, stato minimo al servizio dei cittadini e non il contrario, spostare il fisco dalle persone alle cose, certificati zero, fiducia ai cittadini e presunzione d’innocenza vera e non virtuale come succede in materia fiscale, serve un’assemblea costituente che scriva una nuova carta e metta fine al cattocomunismo strisciante che ci ha ridotti così, uno Stato depresso e deprimente.

Aggiornato il 06 agosto 2020 alle ore 11:09