Ma Conte conta?

giovedì 25 giugno 2020


Come si conta? Da un lato contare significa avere un proprio peso specifico di un qualche rilievo in un Paese; nell’economia mondiale; nella politica delle scelte difficili e non più rinviabili. Dall’altro, le contabilità presentano un contenuto politico determinante quando hanno luogo al momento in cui una Nazione in crisi di debito e di liquidità chiede aiuto al resto del mondo cui appartiene, per avere sufficienti Grants & Loans (Donazioni & Prestiti) per poter tirare avanti. Ovviamente, chi li offre ti chiederà sempre una contropartita. Politica, come nel caso del Recovery Fund europeo (oggi ridenominato Next Generation Eu guardando al futuro delle più giovani generazioni); ovvero di mera e adeguata retribuzione dell’investimento sui titoli del tuo debito pubblico sottoscritti da investitori privati internazionali, come fondi pensione e piccoli risparmiatori.

Il Governo Conte si trova oggi nell’imbarazzante, gravosa situazione di dover guardare all’uno e all’altro aspetto del finanziamento europeo ed estero, quest’ultimo estratto dai mercati finanziari internazionali. Finora, il clima di confinamento e di isolamento della comunità sociale italiana ha premiato i caratteri vitali della cura, della salute e della protezione sanitaria delle collettività coinvolte, richiedendo alle finanze comuni una pesante e dolorosa dazione di aiuti pubblici operati a debito, per la tutela delle mille e una categorie economiche danneggiate e del mantenimento di un minimo potere di acquisto per tutta la cittadinanza. Ora, però, dalla distribuzione delle “mance” occorre passare alle decisioni dolorose dei corposi interessi che dovranno comunque essere sacrificati da ora in avanti.

Prendiamo lo smart-working e l’e-learning, ovvero l’insegnamento a distanza. Un Paese vero prima di fare di queste fattispecie un vuoto mito verbale avrebbe dovuto rispondere a domande serie, come le seguenti. Primo: qual è la mia valutazione dell’attuale digital-divide tra nativi e semianalfabeti digitali? Quali le risorse, i tempi, i progetti analitici valutati sia in termini qualitativi che quantitativi dei fabbisogni connessi di nuove infrastrutture informatiche e di formazione avanzata, la cui corretta valutazione se fatta in passato ci avrebbe oggi consentito di dare le giuste risposte alla Ue per l’impiego di centinaia di miliardi di euro del Recovery Fund? Secondo: quale dovrebbe essere la portata dell’investimento complessivo per generare una florida economia da smart-working che, se “messa a terra” e realizzata come per miracolo fin da subito, è destinata a creare (e già avviene!) uno tsunami di proteste da parte delle categorie del commercio, dell’immobiliare e dell’indotto derivante dai consumi fissi degli impiegati pubblici e privati costretti fino a ieri a lavorare “in presenza”? La Politica sarebbe mai in grado di fare un discorso a muso duro a questa parte opportunistica dell’opinione pubblica e dei segmenti economico-produttivi coinvolti, dicendo loro a chiare lettere di preferire gli enormi, futuri vantaggi legati nel medio-lungo periodo alla dismissione e abbandono delle cittadelle del lavoro amministrativo pubblico e privato? Come tornare indietro da quei colossali blocchi in vetrocemento, operosi e di fatto superflui alveari che immobilizzano immensi capitali speculativi e ad alto assorbimento “energetico”, legati come sono al business dell’automotive, dei consumi di carburanti e di beni e servizi non essenziali alla persona, che fanno delle metropoli luoghi pestilenziali e ultra inquinati in cui vivere, con affitti e costi al metro quadro alle stelle per gli immobili urbani?

Ci vorranno in futuro dieci pestilenze concatenate sul tipo del Covid-19 per decidersi a tornare indietro rispetto ai mostri delle megalopoli attuali. Anche perché bisogna intendersi molto bene su questi strumenti avveniristici del futuro (smart-working ed e-learning) che presuppongono una vera e propria rivoluzione dall’alto e dal basso per rendere molto più performante e produttivo il lavoro sia nelle aziende private che negli uffici pubblici “virtualizzati”. Non solo, infatti, questi strumenti postulano la delocalizzazione geografica del manpower e l’atomizzazione individuale delle sedi, rispetto al lavoro in presenza. In ballo c’è molto di più. Ovvero, uno sforzo titanico e sovraumano legato alla progettazione compiuta di un Algoworld rivoluzionario, fatto di raffinatissimi algoritmi in grado di gestire fino al minimo dettaglio a livello individuale la programmazione per obiettivi e la valutazione “oggettiva” dei risultati connessi, organizzando per di più in modo del tutto complementare, rispetto a oggi, i luoghi della socializzazione tesi ad annullare, in particolare, il gender-divide.

E l’unica via per poter avanzare su questa strada è la creazione di isole di qualità (per la “virtualizzazione” sperimentale sia del lavoro amministrativo che della formazione a distanza), sul modello di quelle giapponesi di una volta, in cui si faceva agire la cooperazione di gruppo tra gli operai dei reparti industriali per un aumento drastico della produttività, vincolandola al solo cambiamento interno della struttura organizzativa dell’impresa.

Quindi, per ottenere risorse adeguate dal Recovery Fund si potrebbero presentare progetti analitici per la creazione di giganteschi Big-data (serbatoio di dati personali, in particolare) e di autostrade informatiche, al fine di istituire per ogni cittadino un fascicolo digitale unico nazionale in cui confluiscano “tutti” i suoi rapporti pregressi avuti con la Pubblica amministrazione a vario titolo e contenuto, cartelle sanitarie ed esattoriali comprese, per la trattazione in remoto dei procedimenti che lo riguardano. In testa ai suddetti processi di ammodernamento deve esserci l’obiettivo strategico di mettere finalmente a fattor comune “tutte” le innumerevoli banche dati dei servizi pubblici, al fine di consentire la massima trasparenza ed efficienza delle attività della Pubblica amministrazione.

Sopra tutto questo, però, ci dovrebbe essere a mio avviso il progetto e la strategia dominante, proposta dall’architetto Stefano Boeri, di una seconda rivoluzione urbana che sposti il baricentro dalle megalopoli alla rivitalizzazione/valorizzazione della rete territoriale costituita da migliaia di piccoli borghi d’arte, oggi in via di drammatico abbandono e patrimonio inestimabile dell’Italia e dell’Umanità intera. Tra l’altro, osservo che, su questo Progetto specifico, si potrebbero investire una decina di annualità della quota spettante all’Italia di Fondi strutturali europei!


di Maurizio Guaitoli