C’era una volta Matteo Renzi

giovedì 21 maggio 2020


Che delusione ci ha dato Matteo Renzi. E che figura ci ha fatto fare a tutti quelli che come il sottoscritto avevano creduto al mito del Tony Blair italiano, magari al netto delle bugie per giustificare l’appoggio a George W. Bush nella guerra a Saddam Hussein. In quattro anni, un leader politico prigioniero della sua tattica ma assai a digiuno di qualsivoglia strategia, ha tracciato una parabola discendente – che poi è quella che rischiano di ripetere i populisti di destra e di sinistra – dal quasi 41 per cento del voto degli italiani a un 3 per cento scarso. Della serie: Once upon a time in Pontassieve. Ovvero c’era una volta in Leopolda.

Troppi opportunismi, troppe paraculate, troppi pseudo garantismi di facciata e veri forcaiolismi di sostanza. Come si possono conciliare – ad esempio – le prediche al pessimo ministro Alfonso Bonafede, etichettato come “manettaro”, con l’avere a suo tempo proposto all’esterrefatto ex capo dello stato Giorgio Napolitano la figura del pm capo di Catanzaro Nicola Gratteri come possibile ministro della Giustizia? E come si può conciliare l’intervento in aula di ieri – con tanto di chiosa finale e gioco di parole “ministro faccia il ministro di Giustizia non dei giustizialisti” – con la scelta poi di non votare neanche la mozione di Emma Bonino per sfiduciarlo? Caro Matteo, un Renzi così non serve a niente.

Si avvia a diventare il Clemente Mastella del terzo millennio, ovviamente anche nei numeri del consenso elettorale. Visto che lei ogni tanto cita anche Marco Pannella si ricordi le sue parole di disprezzo per chi in politica si ostina a credere, e persino a proclamare, che “il fine giustifica i mezzi”. Non è vero, se i mezzi sono sordidi anche il fine viene sporcato e prefigurato da essi. Caro Renzi, infine, a che serve essere l’ago della bilancia se poi si pende sempre dalla parte della poltrona ministeriale? Se è ancora il politico che in fondo per un certo periodo è stato faccia resuscitare l’Italia. Che oggi come oggi più che “viva” ci sembra inesorabilmente “morta”. Amen.


di Dimitri Buffa