Corrado Ocone: “È urgente un governo di unità nazionale guidato da Draghi”

mercoledì 22 aprile 2020


Il professor Corrado Ocone, filosofo e scrittore, ha appena pubblicato con il professor Marco Gervasoni: Coronavirus. Fine della globalizzazione. Liberale convinto, Ocone ci affida queste riflessioni sul momento drammatico che stiamo attraversando.

Questa crisi ha evidenziato tutta la debolezza della classe politica, dall’incertezza delle direttive, all’incapacità di un coordinamento con le regioni, alla delegazione di responsabilità a comitati e task force. Perché questa paura di prendere decisioni?

Il problema dell’Italia è un problema di classi dirigenti, soprattutto nel settore della politica, perché in Italia più che altrove è successo che la politica non ha avuto più delle scuole di formazione, dei percorsi delineati in cui si facesse gavetta politica. Così spesso si arriva a posti di alta responsabilità solo perché cooptati o per un consenso momentaneo legato a qualche particolare fatto. Questo è il primo problema. L’altro è che la classe politica italiana ha accusato molto il colpo di Mani Pulite. In quel momento è stata annichilita la vecchia classe politica, e la nuova si è trovata in una sorta di amministrazione vigilata da parte della magistratura. Questo ha portato il potere politico a non prendersi più responsabilità. Oggi il politico non si prende responsabilità perché teme l’intervento della magistratura, e anche perché non ne è capace. Così deve sentire altre persone: ora gli scienziati, ora i magistrati. Quindi oggi il politico non fa il suo mestiere, che è quello di decidere autonomamente dopo aver ascoltato tutti. È alquanto de-responsabilizzante il ruolo del politico oggi. Tutto questo ha fatto sì che la borghesia delle professioni e le persone più preparate che prima fornivano carburante alla politica se ne siano allontanate. C’è stata una sorta di selezione all’inverso del personale politico. Credo che il problema italiano sia quindi di classi dirigenti e di classi politiche. Non so come lo si possa risolvere, ma di sicuro sarebbe opportuno ripartire dall’istruzione, sia a livello più basso che a livello universitario, perché oggi purtroppo il sistema universitario italiano, e tutto il sistema dell’educazione in senso lato, non è in grado di offrire né competenze alla società nei settori tecnici né di creare mentalità formate a una cultura alta com’era un tempo. Nella scuola, dal ‘68 in poi, si è giocato sempre al ribasso, per cui anche il corpo docente non è stato adeguatamente selezionato come lo era un tempo. È dalla formazione e dalle scuole, anche di partito, che dobbiamo cercare di rimettere in moto il tessuto connettivo della nazione, appunto rappresentato dalla sua classe dirigente.

La crisi ha messo in luce elementi interni di forte disuguaglianza: basti pensare alle differenti potenzialità dei servizi sanitari locali o alla scuola, dove solo un terzo dei ragazzi ha potuto seguire le lezioni a distanza per mancanza di una connessione o di un computer. In aggiunta, si è presa forse definitiva consapevolezza della capillarità nella diffusione del lavoro nero.

I problemi dell’Italia sono problemi storici che si sono andati ad aggravare con il tempo. L’Italia è un Paese diviso, solcato da molte fratture che fino ad oggi si sono intersecate, e questo ha fatto sì che si conservasse l’unità del Paese. C’era la frattura politica democristiani-comunisti, poi fascisti-antifascisti. C’era la frattura territoriale Nord-Sud. C’è la frattura culturale. Il nostro è un Paese profondamente diviso. La situazione attuale è abbastanza grave perché la storica frattura Nord-Sud adesso corrisponde sostanzialmente ad una frattura politica, destra-sinistra. Questo è destabilizzante per l’unità della nazione. Poi il Coronavirus ha agito in modo “selettivo” da questo punto di vista. Bisogna ricomporre un tessuto connettivo, cioè creare la coesione nazionale, e sarebbe stato opportuno che questa crisi fosse stata gestita da un governo di unità nazionale e non da un governo che è minoranza nel Paese e quindi non è legittimato ed è altamente divisivo. Questo è un governo divisivo, perché anche i tentativi di coinvolgere nella cabina di regia le opposizioni sono falliti, mentre in tutte le altre situazioni di emergenza l’Italia ne è sempre uscita con un governo di unità nazionale.

L’Europa, per uscire dalla crisi, ci offre il proprio aiuto attraverso il meccanismo del Mes, il fondo salva stati. Non crede che un ulteriore indebitamento, in questa fase, sarebbe letale per il nostro tessuto economico e sociale? Vede strumenti alternativi?

C’è una trattativa in corso su vari strumenti. Ma, secondo me, in tutto il dibattito c’è stato un grosso assente, tranne poche persone che lo hanno sollevato: penso al professor Giulio Tremonti, penso al professor Giulio Sapelli. Ovvero, sarebbe opportuno che l’Italia in questo momento facesse affidamento su sé stessa. È chiaro che i soldi dell’Europa ci servono in questa fase, ma sono prestiti, e quindi contribuiscono a indebitarci ancora di più. Piuttosto che a un prestito esterno, potremmo pensare a un prestito interno. Per fare un prestito interno, ci sono due modalità: la prima è quella della patrimoniale, che sarebbe deleteria perché profondamente ingiusta e perché farebbe fuggire i capitali all’estero. L’altra, da seguire, è quella di creare dei bond nazionali sfruttando il consistente risparmio interno del nostro Paese, convertendoli in buoni del Tesoro. È quello che si è sempre fatto in questi periodi: anche dopo la guerra si crearono questi titoli di stato, alcuni dei quali non ancora scaduti. L’Italia potrebbe quindi fare ricorso a questa vera e propria riserva di risparmio privato che ha. Ovviamente, dovrebbe essere tutto su base volontaria e ci vorrebbe una classe politica che ispiri fiducia per chiederli ai cittadini. E poi, soprattutto, nella fase di ricostruzione, penso che si debba agire sempre in un’ottica pubblico-privato, mai solamente pubblico. L’esperienza dell’ospedale a Milano è un esempio di questa virtuosa collaborazione, perché il pubblico ha individuato il posto e le risorse sono state fornite perlopiù da imprenditori privati. Mi sembra che questo governo pensi sempre a una soluzione pubblica dei problemi.

Chi avrebbe l’autorevolezza necessaria per chiedere agli italiani di comprare buoni del tesoro?

L’unica persona in grado di farlo è Mario Draghi. Noi abbiamo bisogno di persone che pensino più all’Italia che a sé stessi. Ora, Draghi di certo non ambisce a fare il Presidente del Consiglio, avendo già raggiunto traguardi più alti. A quel punto, Draghi non avrebbe da difendere il suo posto da presidente del Consiglio ma la sua autorevolezza. È al di fuori di ogni gioco politico ed è l’unica personalità italiana spendibile all’estero, nel senso che potrà stare alla pari ai tavoli internazionali. In più, rispetto ad altri nomi come Colao che mi sembrano bravi ma solo nel settore manageriale, Draghi unisce la sua competenza da banchiere con una visione complessiva da politico. Non credo sia però un’ipotesi fattibile perché il M5s non lo vuole e non si capisce fino a che punto lo voterebbero le opposizioni. Con un’operazione di moral suasion, il presidente della Repubblica potrebbe riuscirci.

Che tipo di Governo dovrebbe guidare questa operazione di ricostruzione?

Dovrebbe essere un governo come quello Ciampi, dove entrano tutti i partiti politici, con un numero limitato di tecnici nei settori-chiave e Draghi presidente del Consiglio. Non ci sono le condizioni politiche, ma nemmeno nel 2011 c’erano le condizioni politiche del Governo Monti. Fu decisiva allora un’operazione di convincimento su Berlusconi, che poi entrò nella maggioranza. Oggi dovrebbe giocare un ruolo più attivo il presidente Mattarella. La figura del presidente della Repubblica nella nostra Costituzione non è ben chiara, si può definire “a fisarmonica”: può essere un notaio, ma anche più di un notaio. Mi sembra che Mattarella in questo momento stia giocando troppo da notaio. Ciò che mi preoccupa è che la classe politica sembra non rendersi conto della gravità della situazione, vive alla giornata come sempre. Con un Pil previsto in discesa di 10 punti percentuali, e con tutti i licenziamenti che ne seguiranno, non c’è da stare tranquilli. Se si guarda alla storia, la situazione è pericolosa e troppo sottovalutata: sarebbe saggio non aspettare il momento drammatico per agire.

Come interpreta l’opposizione “responsabile” e collaborativa di Berlusconi al confronto con quella più dura di Salvini e Meloni?

Berlusconi sta inviando dei segnali di disponibilità. Egli ha fondamentalmente il problema di smarcarsi dal duo Salvini-Meloni, sicuramente per motivi di leadership e qualità umane, ma anche perché quella di Forza Italia non è la storia della destra italiana. A volte gli interessi personali convergono con quelli partitici. Sta cercando in tutti i modi di smarcarsi e ha ricevuto da Conte un segnale inequivocabile: in quella conferenza stampa divenuta ormai nota, Conte ha scelto deliberatamente di attaccare Salvini e Meloni ma non Berlusconi. Siamo sempre nell’ambito dei tatticismi politici, che però non ci possiamo permettere in questo momento. La nave affonda, e nessuno pare rendersene conto.

Il Presidente del Consiglio continua a ripetere che il 23 aprile, alla riunione dell’Eurogruppo, rifiuterà qualsiasi soluzione che non siano gli Eurobond. Eppure, sembra assai improbabile che torni da vincitore. Quale sarebbe un accordo vantaggioso per l’Italia?

La posizione che ha assunto è anzitutto per avere più forza nel negoziato e poi per acquietare un po’ l’ala più intransigente del Governo. Anche qui vedo però tatticismi, non convinzioni radicate, profonde. Non mi meraviglierei che, alla fine, Conte firmasse il Mes. Poi, quanto al merito, non sono un economista, ma credo che dovremmo aspettarci meno dall’Europa e più da noi stessi. E quindi, dal negoziato non dovremmo uscire mettendo a repentaglio la nostra sovranità nazionale. Il Mes potrebbe essere accettato in un pacchetto generale con altre misure opzionalmente attivabili. Vedo due grossi ostacoli per la ripartenza dell’Italia: ci affidiamo troppo all’aiuto degli altri, che nei momenti opportuni non c’è mai stato; e poi il Governo attuale ha una cultura anti-industriale, che non facilita la ripresa. In aggiunta, vedo il rischio che venga intaccata la nostra sovranità nazionale. Il rischio concreto è che vengano minate le nostre libertà fondamentali per un tempo indeterminato da un lato, e l’unità nazionale dall’altro. Io sono liberale e liberista, nell’ottica di Cavour di Stato nazionale. Non credo nella globalizzazione intesa come uno Stato unico mondiale, con un pensiero unico e con un’economia e una finanza unica.

Non crede che l’incapacità dell’Europa di mediare e l’inefficacia delle risposte europee alla crisi in corso, siano metafore del fallimento del progetto europeo?

Assolutamente sì, l’Europa è già fallita. L’anno scorso ho scritto un libro proprio su questo, intitolato “Europa. L’Unione che ha fallito”. Credo che il Coronavirus sia stata la mazzata definitiva al progetto europeo. Poi come istituzione potrà ancora continuare ad esistere per qualche anno, ma è sparita quella compartecipazione e quella fiducia con cui è nata l’Europa. Ora c’è un meccanismo burocratico sempre più freddo, sempre più rigido. La dissoluzione dell’Unione assomiglia molto a quanto successo per l’Unione Sovietica, che ha chiuso i battenti nel ‘91, ma già da 15 anni era in disfacimento. Non credo che, con questa struttura, si possano mettere delle toppe e ripartire. Anche qui c’è un problema di classe dirigente europea che manca. Bisognerebbe anzitutto riscrivere da capo il progetto su altre basi. La crisi dell’Europa è come la crisi della globalizzazione. Anche la globalizzazione, per come era stata all’inizio intesa, va riconcepita. La prospettiva “glocal” è la prospettiva del futuro, dove ovviamente tutte le aperture continueranno ad esserci ma con un’attenzione maggiore al territorio. Il fatto che ognuno debba scambiare i prodotti con tutti va bene, ma in una prospettiva “glocal” l’azienda prima di delocalizzare ci penserà due volte, perché la sicurezza che può dare il territorio di appartenenza deve essere il fulcro di tutta la filiera. Molte filiere produttive possono interrompersi per un incidente avvenuto in Cina. Non deve più accadere. L’Europa e la globalizzazione sono morte, è vero. Ma soprattutto sono scomparse le ideologie globaliste ed europeiste. Non so se ne avremo la forza o se gli eventi ci costringeranno a ripensarle, ma sarebbe opportuno rifondarle su altre basi, più vicine ai cittadini, più democratiche e più liberali.


di Alberto Luppichini